Beethoven
Concerto per pianoforte n. 4 op. 58
Andante con moto
https://www.youtube.com/watch?v=lfEU5Ds01gw
[Italiano]
Non riesco a ricordare, nella produzione di Beethoven, alcunché di simile alla conclusione dell’Andante con moto del quarto Concerto per piano.
Questo concerto è il mio prediletto: lo antepongo al magniloquente “Imperatore”, del quale non ha le vaste dimensioni e il respiro titanico che siamo soliti associare alla musica sinfonica (con o senza strumento solista) di Beethoven. Ha invece un’armonia classica, oserei dire greca, ma che non trasmette il senso di luminosa impassibilità dell’arte greca: è un lago profondo e tranquillo, turbato dalle increspature che percorrono la placida ma poderosa massa d’acqua. E’ una perfetta sintesi di potenza e intimità, scintillio e penombra.
Nel movimento centrale, l’Andante con moto, il pianoforte e l’orchestra non si limitano – come è loro uso – a passarsi i temi per svilupparli e variarli; sono veri e propri personaggi contrapposti: due persone che siedono l’una di fronte all’altra e si parlano. L’orchestra si esprime con maestosità ieratica; il piano risponde in tutt’altro tono: parla con una concentrazione sognante, un lirismo assorto ed estraniato, quasi che la sua voce provenga dai recessi del lago. Sembra di risentire gli accenti dell’ ”Adagio sostenuto” dell’op. 27 n.2, stavolta non in una meditazione solitaria ma in bocca ad una “dramatis persona”, che inscena insieme al suo incalzante antagonista un misterioso e attonito duetto.
Ma la cosa che continua a sopraffarmi di questo Andante con moto, fin dalla prima volta che l’ho ascoltato, è la chiusa: quelle tre note della destra (sol – fa # – mi) sospese nel vuoto, immerse in una foschia irreale, in una dissolvenza che è come un deliquio.
Un’impressione simile me l’ha data forse solo l’accordo finale della Maurerische Trauermusik K 477 di Mozart. Eppure si trattava di altro: quella era la sublimazione consolatoria di una religiosità individuale, che ambiva a un rapporto diretto con l’Assoluto. Era l’incarnazione musicale di una serenità mistica.
Qui c’è tutta la solitudine beethoveniana, il proiettarsi dell’uomo al di là della sua miseria, in una tensione contemplativa che lo perde, lo disfa, tuffandolo nell’insondabile gora dell’anima.
L’ineffabilità di questa chiusa mi rende insofferente all’inizio del Rondò finale, peraltro bellissimo, modello insuperabile di un’eleganza scattante che Mendelssohn ha probabilmente invidiato. Preso a sé è una grande pagina. Ma è un peccato che lo si debba ascoltare proprio in quel momento, che sia collocato lì in ossequio alla struttura tripartita della forma-sonata. Un dovere di cui Beethoven si libererà solo più tardi, nell’op. 111, ma che in un Concerto per piano del suo secondo periodo è ancora ineludibile.
*
[English]
I cannot remember, in Beethoven’s production, anything like the conclusion of the “Andante con moto” of the fourth Piano Concerto.
This Concerto is my favourite: I put it before the magniloquent “Emperor”, of which it does not have the vast dimensions and titanic breath that we usually associate with Beethoven’s symphonic music (with or without solo instrument). It has a classical, I dare say Greek harmony, but that does not convey the sense of luminous impassiveness of Greek art: it is a deep and peaceful lake, troubled by the ripples that run through the placid but powerful mass of water. It is a perfect synthesis of power and intimacy, sparkle and dimness.
In the central movement, the “Andante con moto”, the piano and the orchestra do not just reciprocally hand the themes to be developed and varied; they are contrasting characters: two people who sit opposite each other and talk to each other. The orchestra expresses itself with hieratic majesty; the piano responds in a quite different tone: it speaks with a dreamy concentration, an absorbed and estranged lyricism, as if its voice came from the recesses of the lake. One can recall the accents of the “Adagio sostenuto” of the op. 27 no. 2, this time not in a solitary meditation but in the mouth of a “dramatis persona”, who stages together with his pressing antagonist a mysterious and astonished duet.
But the thing that continues to overwhelm me of this “Andante con moto”, from the first time I heard it, is the closure: those three notes of the right hand (G – F sharp – C) suspended in a vacuum, immersed in an unreal haze, in a fade that is like a deliquium.
A similar impression was given to me perhaps only by the final chord of Mozart’s “Maurerische Trauermusik” K 477. Yet it was something else: that was the consoling sublimation of an individual religiosity, which aspired to a direct relationship with the Absolute. It was the musical embodiment of a mystical serenity.
Here there is all the Beethovenian solitude, the projection of man beyond his misery, in a contemplative tension that loses him, undoes him, pits him into the unfathomable marsh of the soul.
The ineffability of this ending makes me impatient at the beginning of the final Rondò, however beautiful, unsurpassed model of a snappy elegance that Mendelssohn has probably envied. Standing alone it is a great page. But it is a pity that it should be heard at that very moment, that it is placed there in deference to the tripartite structure of the Sonata form. A duty of which Beethoven will set himself free only later, in the op. 111, but that in a Piano Concerto of his second period is still inescapable.