Beethoven – Sonata per violino e pianoforte op 47 “A Kreutzer”

Beethoven – Sonata per vl e pf op 47 “A Kreutzer”

vl Patricia Kopatchinskaja, pf Fazil Say

Avevo appena finito di ascoltare una Sonata di Janacek, quando Youtube le ha inopinatamente fatto seguire la Sonata a Kreutzer, eseguita da questi due giovani musicisti che non conoscevo.

Lo sconcertante avvio della Sonata ha subito catturato la mia attenzione. Quell’avventarsi con violenza selvaggia sulle corde e sui tasti nel Presto del primo tempo mi ha incuriosito e tenuto incollato allo schermo. Il tempo è proseguito con lo stesso impeto folle. Non si può dire che i due manchino di temperamento; lei soprattutto. Chi avrebbe mai detto che una ragazza dal viso così mite potesse trasformarsi in una Furia anguicrinita, col violino in mano? Dopo il primo tempo ero stupefatto.

Pensavo di poter rifiatare nell’Andante con Variazioni, ma anche questo movimento non ha mai visto calare la tensione, a partire dall’Andante di largo e sereno respiro. Dopo il delizioso staccato e pizzicato della prima variazione, il piano ha tenuto dietro alla danza dell’archetto sulle corde nella seconda. Una dolente terza variazione ha visto lo strumento della Kopatchinskaja sciogliersi nel canto. Nella quarta il violino ha ridato la scena al pianoforte, accompagnandolo con pizzicati e trilli. Nella coda, finalmente, violino e pianoforte hanno cantato insieme, terminando il movimento con dolcezza e abbandono. Qui Fazil Say si è mostrato un po’ teatrale ma pur sempre solido e impeccabilmente preciso.

Il Presto finale è stato prevedibilmente tutto fuoco e fiamme. Salvo qualche stacco rabbioso di troppo del violino, non posso dire di non aver trovato questo finale – come tutta la Sonata – trascinante.


Nel frattempo i due si sono evoluti, ciascuno ovviamente per suo conto. La violinista moldava è una figura controversa. Il pianista turco è anche compositore. Questo video fotografa solo un momento delle rispettive carriere.

Beethoven – Sonata in mi minore op. 90

È una Sonata meravigliosa: il secondo tempo non smetterà mai di commuovermi. Beethoven comincia a sentire il bisogno di precisare in modo sempre più dettagliato le dinamiche dei tempi delle sue composizioni: “Nicht zu geschwind und sehr singbar vorzutragen” (“Non troppo veloce e molto cantabile”). Ci sarebbe tanto da dire su questa Sonata. Thomas Mann vedeva nell’op. 111 un grandioso e definitivo addio alla forma-sonata; spinto forse proprio da questa suggestione, io vedo nell’op. 90 un addio al c.d. secondo periodo: quello della fierezza titanica, degli slanci tempestosi, delle accelerazioni rapinose. A partire dall’op. 101 Beethoven si apre a una meditazione più rasserenata, ma non per questo priva di fuoco. È solo che smette di lottare col Destino, si sforza di accettarlo, di comporre le energie vitali in una visione trascendente.

Non è curioso che entrambe le Sonate, l’op. 90 e l’op. 111, siano in due tempi? Probabilmente, scrivendo le ultime note del secondo tempo, Beethoven si rendeva conto che stava chiudendo una fase del pensiero musicale, e che un terzo tempo sarebbe stato un intruso. O almeno mi piace vederla così.

Beethoven – Sonata per violino e pianoforte op 96

Beethoven – Sonata per violino e pianoforte op 96

Yehudi Menuhin, vl – Wilhelm Kempff, pf

L’apertura così disarmante di questa Sonata, un trillo seguito da tre note discendenti, ha un tono interrogativo: “Cosa accade? Cosa c’è nell’aria?”. Una domanda che viene ripetuta per tutto il primo tempo (Allegro moderato). Il secondo (Adagio espressivo) ha un’andatura tranquillissima. Si ritrova un po’ di agitazione nello Scherzo: questo terzo tempo si lega all’Adagio espressivo quasi senza soluzione di continuità. Il quarto movimento (Poco Allegretto) si apre a passo sciolto e, dopo un movimentato episodio centrale che si chiude con accenti riflessivi, riprende la sua marcia confidente verso un futuro aperto alla speranza.

Questa ultima sonata per violino e pianoforte si affaccia sul terzo periodo, in cui non ci saranno più Sonate per violino e pianoforte né Trii, ma solo opere improntate a un nuovo spirito: ancora 5 Sonate per piano, 5 quartetti, due Sonate per violoncello e pianoforte, intervallati da opere d’occasione, come i Temi variati, che sono solo un tirare il fiato prima di affrontare le ultime monumentali fatiche: la Nona, la Missa Solemnis, le Variazioni Diabelli. Quel terzo periodo in cui la tensione – e tentazione – titanica cederà il passo alla contemplazione della trascendenza, al dialogo con l’Assoluto, in un progressivo distacco dalle passioni umane, dal corruccio, dall’ira, dalla strenua lotta per gli ideali.

La Sonata op. 96, e la Sonata per piano op. 90, ad essa corrispondente per temperie, sono i due brevi passaggi verso l’altopiano degli ultimi voli. Il loro tono di ansia sospesa, in attesa di un mondo espressivo che sta per dischiudersi, un mondo ancor più sorprendente, dopo tutto quello che c’è stato, me le fa ascoltare sempre con un brivido.

20/1/2021

Beethoven – Missa solemnis op. 123

Beethoven – Missa solemnis op. 123

Agnus Dei

Giunto a quello che è conosciuto come il terzo periodo del suo cammino creativo, e ai suoi ultimi anni di vita, Beethoven respirava cielo. Le sue ultime composizioni mirano a infrangere i limiti delle umane possibilità, con la dilatazione dei tempi ben oltre l’uso dell’epoca, e soprattutto con l’ispirazione che tende a proiettarsi nella trascendenza. Il concetto va inteso in senso teologico-filosofico e non nell’accezione che assumerà, ad esempio, negli “Studi trascendentali” di Liszt. Qui non si tratta di virtuosismo spinto all’estremo, tanto da richiedere all’esecutore un’abilità sovrumana. Nei tardi capolavori di Beethoven la grandiosità dell’insieme non è più al servizio di uno spirito prometeico o titanico: l’uomo non lotta più contro il destino avverso, non rivolge più lo sguardo corrucciato al cielo, non alza il pugno per affermare una volontà indomita. La passione si è sublimata in uno spirito di superiore accettazione, che porta l’essere umano a fondersi col creato, o ad elevarsi al suo Creatore. Negli ultimi Quartetti si rimane persi in una sorta di meditazione metafisica, che si alterna a movimenti più vivaci scossi da una sotterranea inquietudine: Beethoven è ormai uno spirito straniato dal mondo, abitante di una plaga in cui può avventurarsi solo chi aspira alla solitudine finale.

La Missa Solemnis appartiene in pieno al terzo periodo. Beethoven ha sempre avuto un rapporto difficile con la musica vocale. Ha scritto pochi Lieder, una sola opera, due Messe, un Oratorio e una Cantata. Queste ultime due opere non si annoverano fra la sua produzione migliore. Poi ci sono le parti corali della Fantasia op. 80 e della Nona Sinfonia. Ma la Missa Solemnis si distacca dal resto della sua musica vocale. È un’opera ancor oggi problematica, un maestoso tentativo di esprimere la condizione drammatica dell’uomo attraverso i testi canonici della sacra liturgia. Non è una Messa che si possa eseguire in una funzione religiosa. A parte il fatto che le Messe dei grandi musicisti oggi si eseguono solo nelle sale da concerto, la Missa Solemnis non ha forse neanche il carattere di una vera e propria messa. È paragonabile al Giudizio Universale di Michelangelo: un grande affresco delle miserie, delle tribolazioni, delle lotte, dell’anelito dei mortali alla dimensione ultraterrena. È una sorta di compendio della ricerca umana di risposte definitive; una sintesi del significato delle religioni nella storia dell’uomo.

Vorrei infine sottolineare come nel movimento finale, l’Agnus Dei, la tensione drammatica tocchi il suo acme, prima di sciogliersi nella catarsi di quell’ultima frase consolatoria – “dona nobis pacem” – ripetuta più volte fino alla potente conclusione orchestrale.

Beethoven – Concerto n.4 in sol maggiore op. 58

Beethoven – Concerto n.4 in sol maggiore op. 58

pf Edwin Fischer

Orchestra Sinfonica della Radio di Baviera

dir. Eugene Jochum

Due osservazioni minime.

La prima riguarda lo straordinario attacco dell’Allegro moderato. Fischer, in una sola frase, riesce ad esprimere quattro accenti diversi: alla composta serenità dei primi accordi fa seguito il ripiegamento in una misurata introversione degli ultimi due; la delicatezza estatica della successiva scala ascendente si smorza nella nebulosa rassegnazione dei quattro accordi che precedono l’ingresso dell’orchestra. Questa inusitata varietà di toni così finemente dosati in un tanto breve spazio predispone all’ascolto di una esecuzione di altissimo livello.

La seconda riguarda il trattamento del trillo in Beethoven. Tecnicamente il trillo fa parte degli “abbellimenti”. Dall’epoca barocca fino a Haydn e Mozart ha rivestito la funzione di ponte di raccordo fra due frasi, il cui impiego permette all’altra mano di sviluppare nel frattempo una figurazione indipendente. Beethoven lo eleva ad elemento emotivo, integrandolo al punto di farne il fulcro del discorso. I lunghissimi trilli dell’Allegro moderato, che tutti evochiamo con immediatezza pensando al Quarto Concerto, si può dire che attirino a sé l’emergere della mano sinistra dalle ottave profonde, aprendo dopo di sé una cascata di note che si riversano in giri irrequieti alla ricerca di una pausa che ridia voce all’orchestra.

Il trillo diventa dunque il perno di diversi snodi di un periodo fitto di ardimentose scorribande in cui si dibatte il tumultuoso pathos beethoveniano.

Questo elemento tecnico, che ormai non si può più confinare tra gli abbellimenti, si arricchirà di altri significati ancora nelle ultime Sonate per pianoforte, divenendo un testimone di come Beethoven abbia non solo rivoluzionato il discorso musicale nel suo complesso, ma anche innovato l’uso di singoli artifici ed elementi di stile.

Ravel – Le Gibet (da “Gaspard de la Nuit”)

Ravel – Le Gibet (da “Gaspard de la Nuit”)

pianoforte Arturo Benedetti Michelangeli

Dire che il documento è interessante sarebbe riduttivo.

Avevo ascoltato decine di volte i tre quadri di questo capolavoro di Ravel. Ora mi è chiaro che non l’avevo mai capito a fondo; o per lo meno non avevo capito il quadro di mezzo. Per meglio precisare l’affermazione, ho confrontato questa esecuzione con altre quattro, quelle di Vlado Perlemuter, Martha Argerich, Ivo Pogorelich e Sergio Fiorentino, tutte pregevoli. Ho avuto la sensazione di trovarmi davanti ai vangeli sinottici, la cui narrazione scorre parallela, diversamente da quella di Giovanni, che, nell’esempio, è Benedetti Michelangeli.

Tratto, come gli altri, da una poesia di Aloysius Bertrand, ”Le gibet” descrive una scena di impiccagione al tramonto, scandita dai rintocchi di una campana.

Gli altri pianisti ne fanno una sorta di indolente passeggiata tra le mollezze di un paesaggio torpido, cercando di attenuare l’impatto cantilenante di quelle ottave di si bemolle e delle relative note singole, ripetute 258 volte, quasi fossero imbarazzati dalla loro insistenza. L’impiccato rimane sullo sfondo, presenza evanescente come un miraggio nella calura. I clangori sono soffocati e filtrati, come se la scena si svolgesse in sogno. Le indicazioni di p, pp e ppp, di cui è disseminato lo spartito (ma – attenzione – non ovunque e non su tutte le righe), e della sordina continua, sembrano autorizzare, anzi richiedere una lettura del genere.

Solo Perlemuter, fra i pianisti che ho messo a raffronto, se ne discosta un poco, restando in un clima più terrestre e pesante, in cui i si bemolle sono veri rintocchi a martello e non il gentile tintinnare dei tubicini di vetro che si mettono all’entrata dei negozi per annunciare l’arrivo di un cliente.

Tanto più controcorrente e coraggiosa appare allora la scelta di Benedetti Michelangeli di tuffarsi in un’atmosfera cupa, di una rudezza scostante. Le indicazioni di piano e pianissimo vengono, non direi eluse, ma applicate con diffidente parsimonia. Benedetti Michelangeli smaschera la narrazione, avvicinandoci al vero scenario sul quale il quadro si staglia: quello macabro della forca.

Si potrebbe parlare, nel suo caso, di intelligenza creativa dell’interprete, che arriva a forzare una tradizione consolidata, apparentemente giustificata dalla più ovvia lettura delle dinamiche dello spartito, bucando la superficie musicale per riversare nelle acque profonde del significato quel tanto di subbuglio della coscienza provocato dal testo che ha ispirato il brano.

Qui i link alle altre esecuzioni ancora disponibili:

Perlemuter:

Argerich:

Pogorelich ( circa 7′ 30”)

Johannes Brahms – Ballata e Intermezzi

Johannes Brahms

Ballata in sol minore op. 118 n. 3

Intermezzi op. 117 nn. 1 – 2

pf Edwin Fischer

Fischer porta alla luce in Brahms l’eloquenza naturale, la facondia antiretorica. Ho usato quest’ultimo aggettivo talora anche per Kempff. Ma, mentre definirei asciutto il tocco di Kempff, chiamerei adamantino quello di Fischer. Trasposto nello spazio, il suo pianismo è una superficie levigata, di grande trasparenza. Lungi dalla fredda bellezza del minerale, però, il tocco di Fischer possiede un calor bianco, una concentrazione di passione rattenuta che si espande e si scioglie nella coscienza conquistata dell’ascoltatore.
Fra i quattro brani eseguiti, quello che con maggior evidenza ha suscitato in me quest’impressione è l’Intermezzo op. 117 n. 1.

Bach – Ciaccona (dalla Partita n. 2 per violino solo)

J. S. Bach – Ciaccona (dalla Partita n. 2 per violino solo)

trascr. Busoni

pianoforte Luigi Di Ilio

A parte la ovvia differenza timbrica, c’è una sostanziale diversità di intenzione fra la scrittura per violino e la trascrizione di Busoni. L’apertura della pagina nell’originale appare come un’alta lamentazione intonata dal protagonista di una tragedia greca. Ci si potrebbe anche lasciar suggestionare dal fatto che la Ciaccona era una danza austera, e il coro della tragedia greca danzava e cantava; il fatto è che l’accento drammatico della Ciaccona è così pronunciato che il paragone viene spontaneo.

Lanciato il suo urlo iniziale, che maledice il destino, il personaggio-violino si addentra nel racconto febbrile, intriso di lucida follia, delle circostanze che l’hanno portato a quel punto. Siamo appesi alla narrazione, di cui apprendiamo gli sviluppi con interesse ansioso, che si rinnova a ogni svolta del racconto. Il violino precipita in vortici di disperazione, si apre a inopinati spiragli di speranza per poi rabbuiarsi di nuovo, in un travaglio di emozioni che non conosce tregua. Ripercorrere le fasi di questa alternanza, fino alla catarsi, che esplode come una bomba la cui nube cancella l’orizzonte, lasciando l’uditorio stupefatto e stordito, meriterebbe un’analisi approfondita delle innumerevoli metamorfosi del tema.

Di tutt’altro tenore la trascrizione busoniana. Il pianoforte funge da grandiosa cassa di risonanza di una voce che si è fatta corale e rispecchia le fastose sonorità orchestrali del Barocco, filtrate però dall’impervio virtuosismo pianistico dell’Ottocento, di matrice lisztiana.

Il pensiero musicale sottostante, che accomuna le due versioni, si ritrova nella struttura della Ciaccona, in cui le variazioni del tema rampollano l’una dall’altra come spinte da una necessità ineluttabile, con ferrea concatenazione logica, come pezzi di una costruzione che si ricompongono in un meccano celeste.

L’esecuzione di Luigi Di Ilio sfrutta tutta l’opulenza delle sonorità pianistiche, mantiene la tensione sempre sostenuta, innestando una frase nell’altra con una dinamicità che non conosce riposo. La brillantezza del tocco e la chiarezza dell’esposizione si colgono a dovere nella soddisfacente acustica della registrazione. Una superba interpretazione, tutta da godere.

Debussy – Feux d’Artifice

Debussy – Feux d’artifice

dal 2° libro dei Preludi

pf Luigi Di Ilio

Se li confronto con la Music for the Royal Fireworks di Haendel, non posso non pensare che questi non siano dei veri fuochi d’artificio, ma piuttosto dei fuochi fatui, delle fiammelle che si muovono disordinatamente nella notte (“leggere, uguali e lontane”), dotate di vita propria, scoppiettando qua e là davanti agli occhi.


La seconda parte, dall’indicazione “Incisif” in poi, dà piuttosto l’idea di un fenomeno cosmico, di un’esplosione di stelle, seguita dal buio e dal silenzio che accompagnano la nascita di una stella di neutroni, che di un banale finale pirotecnico.


Insomma, questo Preludio non ha nulla del fasto celebrativo dell’evento di cui porta il nome, ma è ancora una trasfigurazione impressionistica della realtà, una chiazza sonora in cui, come nelle macchie di Rorschach, la suggestione domina la ragione.

15/7/2018

* *

Gli scoppiettii dei fuochi d’artificio sono immersi in una nuvola sonora, le cui varie forme, dalla struttura simmetrica, si alternano in modo da avvolgere l’ascoltatore in una rutilante avventura che col gioco pirotecnico del titolo ha solo una vaga attinenza. È piuttosto uno di quei sogni in cui l’inconscio si libra col batticuore su abissi immaginari, fra stridi fulminei – combinazioni di note e accordi secchi – e lunghe tiritere di arpeggi vorticosi ed altre figurazioni insistenti.

Le sonorità di Di Ilio escono pulite e variegate, seguendo le dinamiche inebrianti e un po’ sconcertanti di questo caleidoscopio impressionista, che chiude con degna opulenza il Secondo Libro dei Preludi.

17/7/2020

Chopin – Preludio n. 15 op. 28

Chopin – Preludio n. 15 op. 28 – Goccia d’acqua

pf Ivo Pogorelich

In questa incisione abbiamo il Pogorelich dei tempi felici, il ragazzo che si affida alla sua fervida intuizione per rinnovare i volumi e i piani sonori, facendoci inoltrare in una visione incontaminata, ma non per questo eccentrica, di brani già notissimi, dei quali svela nuove dimensioni laddove sembrava che non ci fosse più nulla da dire.

Uno dei tratti caratteristici di Pogorelich è la dilatazione del tempo, che non viene però usata come espediente meccanico per mettere in risalto le singole note – forzare l’agogica non è il modo migliore per rendere lo spirito di un brano o coglierne le sfumature dei singoli passaggi; ma per creare un clima sospeso in cui pronunciare la sua particolare visione, di frequente non ortodossa ma sempre carica di sensibilità nuova.

Nel Preludio n. 15 le fasi che si muovono attorno alla nota cadenzata, aprendo quinte attraverso le quali si snoda una brevissima ma travagliata storia che alterna momenti lirici e drammatici, saldamente connessi da un’alta tensione emotiva, sono raccontate da Pogorelich con una purezza e un’intensità esemplari.

Ho parlato di fasi del Preludio con riferimento ad alcune riflessioni che avevo svolto tre anni orsono sulla sua struttura, e che riporto qui per confrontarle col percorso tracciato dal pianista croato.

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Il titolo “Goccia d’acqua”, non di Chopin, è tanto azzeccato da divenire condizionante. Presi dalla sua elementare suggestione, siamo restii a cercare altro e ci lasciamo portare alla deriva dalla sua indicazione già pronta, come sognatori inconcludenti che appoggiano la guancia alla finestra rigata dalla pioggia.

Se però tendiamo i nervi, se le nostre facoltà percettive rimangono vigili, scopriamo il mondo nascosto dietro quella oleografia.

La mano destra disegna una linea melodica semplice e tenera, mentre la sinistra insiste su una nota, che però è ben altro che una semplice “goccia d’acqua”.

La melodia è la rappresentazione di una palpitante visione interiore, vagheggiata con desiderio ma anche col timore che ci sfugga, che si dissolva prima che la possiamo afferrare: questo timore è incarnato dai movimenti della sinistra, da quella nota che pulsa come la nostra ansia repressa. La visione si fa via via più carezzevole, sfiorandoci la guancia con le sue diafane dita.

La scena cambia: il basso ha il sopravvento, mettendo a tacere il tema idillico; la nota ribattuta insiste, scortata dal montare di accordi minacciosi; si trasforma in ottava, si impadronisce della zona superiore e cresce di tono; poi lo schema si ripete: di nuovo le note ribattute, sottovoce, e ancora le ottave che squillano come trombe, incitando gli accordi inferiori a muovere su di noi come armate nemiche.

La melodia ricompare nella mano destra, ma come straniata, impaurita, implorando aiuto con accordi dissonanti. Ha un crollo; rallenta, quasi vinta. Sembra che ormai sia venuto il momento di soccombere; ma no, si volta pagina e il preludio ricomincia come prima. L’angoscia che ci aveva avvolti svanisce. La nota ribattuta non mette più ansia: è un battito ormai familiare, è il cuore che riprende le sue pulsazioni regolari. L’ultima apparizione del tema si disperde esitante nel vuoto, lasciandoci stupefatti e desiderosi di solitudine.