Mia cara, da oggi sono formalmente innamorato. Viviamo insieme da tempo, ma fino ad oggi l’amore non era stato nominato. Avevamo così deciso, di vivere insieme cioè, in attesa che la nostra attrazione reciproca si esaurisse. Non vedevamo altra via d’uscita. Per lo meno, dichiaravamo di non vederne. Sono sempre stato consapevole della tua speranza di farmi innamorare, mentre a me non importava nulla che tu mi amassi o no. Preferivo anzi una vita senza le complicazioni del sentimento. Ora, tutto è andato secondo i nostri desideri: io mi sono innamorato e tu no. Perciò non dovrei lamentarmi. In effetti trovo che sia presto per lamentarsi, prima ancora di aver saggiato il nuovo stato di cose.
Il fatto che mi sia innamorato di te comporta una miriade di minuscoli cambiamenti. Devo, ad esempio, non solo aprirti la porta, come già facevo perché non ti affannassi a cercare le chiavi, quando suonavi il citofono tornando carica della spesa, ma venirti incontro fino al portone, anzi fino al cancello del vialetto, per sollevarti del carico. Gradualmente dovrò poi abituarmi a uscire con te per far la spesa insieme, e più in là farla tutta io, sempre, non solo quand’è il mio turno, anche quando torno stanco dal lavoro (succede il più delle volte) e a te, che sei riposata, semplicemente non va di uscire. Finora la suddivisione dei compiti teneva conto del tuo impiego a tempo parziale: d’ora in poi, pur non escludendo del tutto questa tua facilitazione, terrà conto soprattutto del mio neofita amore.
Quando sediamo nel divano del soggiorno, non potrò più leggere tenendoti la mano in grembo, ma a volte ti accarezzerò o stringerò la mano, a volte interromperò la lettura per guardarti negli occhi e poi, con minuzioso interesse, la fronte e i capelli, la bocca, la linea del naso, la forma delle narici, la parte del collo seminascosta dai capelli: a quel punto mi verrà voglia di baciarti l’orecchio, o di accarezzarne il lobo, giocherellando con l’orecchino, specie se pendulo e dotato di una pietra dal tenue colore; il mio sguardo scorrerà poi sul tuo corpo, soffermandosi pacatamente sul seno, sulle gambe, le caviglie e i piedi, mentre carezzerò la stretta gonna e farò scivolare le dita sulle calze. Noterò ogni volta che accavalli le gambe, e ogni tanto mi alzerò e mi avvicinerò al televisore per vederti tutta insieme. Resterai imbarazzata nel captare nella mia attenzione un’indiscrezione da estraneo. Il fatto è che la mia nuova condizione mi impone un regresso nella disinvoltura, di cui già in questa prima giornata ho avuto modo di notare diverse manifestazioni: il distogliere forzatamente gli occhi, se ti guardo da dietro e ti volti, quasi che non volessi farti pensare che ti sto fissando; il precipitarmi a fare cose di nessun conto che mi chiedi, come vuotare la pattumiera o tagliarti l’aglio a spicchi; il seguirti casualmente se cambi stanza; il guardarti muovere, fare le faccende, vestire e svestire; soprattutto, la penosa impressione di novità dei tuoi atti: ossia la constatazione che non riconosco più il tuo modo di agire, e ricordo solo vagamente quello precedente.
Immagino che domattina troverò innaturale che tu ti vesta con eleganza per andare al lavoro, mentre a casa indossi un abbigliamento comodo, per il quale mi viene in mente per la prima volta la parola “sciatteria”. Mi sembrerà strano che ti fermi a fare straordinario, non perché abbia dei sospetti – però la frase che mi hai detto una volta, che tutti gli uomini del tuo ufficio sono brutti, che accolsi a suo tempo con indifferenza, anzi quasi gongolando, mi suona ora leggermente inverosimile – non, dunque, perché già sospetti di te, ma perché mi pare crudele e insulso che, per poche migliaia di lire, ti privi del piacere di stare insieme qualche ora in più. Ti privi? Privi me del piacere. Ma a te che effetto fa stare insieme? È allarmante non essere certo della risposta. E poi, tutto quel tempo che passi da sola fuori casa, la mattina in ufficio, il pomeriggio a fare commissioni. Tutti quegli sguardi maschili che si appuntano su di te, monotono martellare di cui a me non giunge neppure l’eco. Che effetto fa, a una donna, disporre di tutto quel tempo e tutta quell’ammirazione gratuita, sapendo che le basta uno sguardo per tirarsi dietro qualsiasi uomo le piaccia? Meglio non pensarci. La sera, fortunatamente, la passi sempre con me. Ancora. Ma devo starmene con le mani in mano ad aspettare che una sera mi annunci un pretesto per startene fuori casa?
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Mio caro, dici di esserti innamorato di me, e non ho motivo di dubitarne, anche se lo annunci a meno di ventiquattr’ore dal fatto, il che rende consigliabile prendere alcune precauzioni. Non mi abbandonerò, innanzitutto, alla minima lusinga. Ti assicuro che il tuo innamoramento non mi rende fiera: è un incidente della natura, che dimostra, forse, qualcosa a mio vantaggio, ma è un vantaggio di cui non m’importa niente e che inoltre non saprei come sfruttare, benché tu supponga in me molta più astuzia di quanta ne possieda. Nego, poi, di averti taciuto l’intenzione di sedurti, che presumi abbia avuto fin dall’origine del nostro rapporto. Semmai tu, che con mille gentili acrobazie facevi sfoggio delle tue migliori possibilità, miravi a cogliermi in fallo di sentimento. Lo notavo, nella mia affaccendata modestia, e ne sorridevo. Non però con scherno: il tuo, in fondo, non era che un tenero e innocuo armeggiare a mezzo fra il tubare e il fare la cresta. Non nascondo che la tua dichiarazione mi ha lusingata, come donna, oltre ad aprirmi la prospettiva di una vita più comoda, se il tuo desiderio di aiutarmi non si sgonfierà troppo presto. Ma da qui a parlare di orgoglio, alterigia, crudele compiacimento, ce ne corre. Sono sentimenti che non mi si addicono, troppo mediocre come sono per mettere a frutto una qualsiasi vittoria, specie se immeritata. Come la seduzione fu inconsapevole, così la supremazia, se di questo si tratta, è inerme. A dispetto della prudenza con cui mi esprimo, che mi viene solo dal timore di perdere tutto per troppa immediatezza, sento che potrei essere ferita da te con la punta di uno stelo. Credimi anzi se ti dico che vorrei riuscire ad amarti, se non altro per riequilibrare le sorti della nostra convivenza, che uno scossone di questo genere potrebbe far tombolare giù dallo stretto asse sul quale la stavamo spingendo a bacchettate, io da destra e tu da sinistra, a volte scambiandoci i lati ma senza mai passare entrambi dalla stessa parte. Sarebbe per me onorevole incontrarmi col tuo amore, che naviga alquanto sopra la mia testa. Vedi, mi perdo dietro le chimere e non so apprezzare i tuoi slanci concreti, pieni di fuoco terreno e plausibile devozione. Cosa ho fatto per cambiarti? Per cambiare, in te, la tua idea di me, che già la mia ritrosia starà facendo di nuovo virare verso chissà quale rotta? Null’altro che sforzarmi di non fare niente. Ciò che stai cercando di farmi credere, e che una donna più sagace avrebbe già preso per vero, rallegrandosene, ha annientato ogni mia volontà di azione e di corresponsione. Quello che appare ai miei occhi trasognati è la lunatica figura di un saltimbanco di gomma, che storce la bocca e deforma le membra per trasformarsi, e ci riesce, in tutte le parole che vuole. Un amore elastico e funambolico è ciò che mi offre: ho paura di accostarmici, paura di essere sbalzata nella regione dei trapezisti. Perciò appoggerò dei pesi sulla tua dichiarazione di oggi: se la sua ossatura risulterà abbastanza robusta da non schiantarsi, forse non ci separeremo. Perciò, anche, mi divincolerò come un’anguilla: se le tue mani, cosparse di talco, manterranno una presa sufficientemente forte da bloccarmi, mi fermerò, ma non prima di essere esausta.
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Perché mi chiedi prove degne di un cavaliere medievale? Perché corri lungo i corridoi, chiudendo le porte dietro di te? Me ne starò in un angolo del soggiorno, senza toccarti, senza guardarti, senza pensare a te, se ci riesco. Sapevo che la parte più dura sarebbe cominciata adesso. Mi aspettavo un cannoneggiamento in risposta alla mia civile incursione nelle tue terre. La mia ubriacatura non poteva non trasmetterti un poco d’ebbrezza. Abbiamo sempre bevuto insieme: in questo, almeno, la nostra concordia è stata perfetta. Accadeva, anzi, che se uno dei due beveva in compagnia altrui, lontano da casa, l’altro in cucina fosse colto da stordimento e facesse schioccare la lingua, mentre la cucina si riempiva di tanfo di vino.
Sono certo che stai per contestarmi l’arbitrio di questa versione: non sei affatto ebbra, o, se di ebbrezza si tratta, ne è un tipo particolare che serba intatta la lucidità. Non voglio mettermi a questionare su una cosa tanto irrisoria. Non sei ebbra, te lo concedo. Non hai raggiunto il mio stato di alterazione. Ma cos’è, dunque, la tua fuga precipitosa davanti ai miei lineamenti rimescolati dalla passione, se non la paura di appassionarti anche tu? Cos’è il tuo timore, se non panico? Le nostre due braci devono o soffocare insieme o venir rimestate allo stesso tempo, dalla stessa mano, che fa la spola tra i due camini dirimpettai. L’attizzatoio è già sporco della cenere di entrambi. Negati finché vuoi: corri in cima alla scala: già sai che mi troverai in solaio ad aspettarti.
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No. Ti rispondo di no, ancor prima di sapere cosa significa questo no. Non mi pesa ammetterlo, un significato non è difficile pescarlo, fra i cento che mi pullulano davanti, venendo a turno a galla. Perciò ti lascio immaginare quello che preferisci. Una cosa posso spiegarti: rispondo di no alle soluzioni immediate che, con sbrigatività maschile, vorresti propormi. Ti dirò dunque cos’è che non si può fare.
Non posso, anzitutto, amarti, né subito né, forse, in seguito. Se ti dicessi che lo potrò, sarebbe come dirti già ti amo; se negassi con energia che ciò possa mai accadere, lo sforzo che il rigore di questa presunzione richiede mi farebbe capitolare anzitempo.
Né posso incoraggiarti nella tua esaltazione: sarebbe una responsabilità troppo grave, una minaccia continua alla mia pace; tenerti a bada, un compito sfibrante.
Nemmeno è più lecito arretrare al punto di partenza, che solo ieri era a portata di mano e oggi sembra smisuratamente lontano. Mentre puntelliamo in fretta la parte visibile dell’edificio, sappiamo che uno scrollone ne ha minato le fondamenta: perciò dobbiamo amministrarci con giudizio.
Odiarti? L’idea mi fa sorridere. Non ne ho motivo, non ne ho voglia, ed è un’evidente ingenuità. Dove approderebbe, infatti, un odio irragionevole e puntiglioso? Ti porrebbe (niente di più irritante, per me) in una luce di nobile sofferenza, tale da far illanguidire la stima che hai saputo strapparmi col metterti in una posizione di aperta inferiorità; senza quella stima, divenuta ormai troppo importante, anche una placida convivenza da amici mi riuscirebbe insopportabile. Per non parlare di possibilità più intime, compromesse per sempre. Ti attireresti così altro odio, stavolta più sincero.
Lasciarci, solo perché non abbiamo la tenacia di sopportare un’evoluzione spontanea del nostro invischiamento, sarebbe come lacerare un tessuto fine sul quale delle lavoranti stanno ricamando con sapiente artigianato.
Separarci per un tratto di tempo non sarebbe meno vile, e non farebbe che procrastinare il dilemma.
Non resta, dunque, che solcare lentamente questo mattino troppo bianco, gravato di nubi abbaglianti, tacendo e dolcemente in pena, finché l’ovattata chiarezza del cielo non trascolori in notte piena e limpida, in cui l’amore smetta di apparirci la prova d’ardimento o l’azzardo che era di giorno.
3/4/1983