Brahms – Intermezzo op. 118 n. 2

Johannes Brahms

Intermezzo in la maggiore op. 118 n. 2

pf Walter Gieseking

pf Ivo Pogorelich

Oggi vorrei mettere a confronto due pianisti che non potrebbero essere più diversi: Walter Gieseking e Ivo Pogorelich. La pietra di paragone è un brano facente parte di un gruppo di composizioni: l’Intermezzo in la maggiore op. 118 n. 2 di Brahms.

https://www.youtube.com/watch?v=0u9P2WO9Ok0

Gieseking intercetta il tono predominante di questo brano: la nostalgia. Entrambi i temi, in tutte le note, sono bagnati in una calda, luminosa nostalgia. Un sentimento da artista maturo, che fa di essa la dignitosa bandiera della propria umanità. Con estrema naturalezza, Brahms incastona nel cosmo la fragilità dell’uomo, accettandone virilmente i limiti, senza alcuna recriminazione o lamentela.

Il contrasto fra la pennellata robusta e la rassegnazione all’inerme condizione umana è ciò che caratterizza l’ultimo Brahms pianistico e ne costituisce il fascino, magnificamente reso dal pastoso calore del tocco di Gieseking.

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https://www.youtube.com/watch?v=uFhlIhdNGjg

Con la sua estrema dilatazione dei tempi, che isola le note in frammenti solitari di sofferta lucidità, Pogorelich porta l’Intermezzo quasi al punto di rottura.

Siamo agli antipodi della serena rassegnazione lettavi da Gieseking, dell’equilibrio armonico fra l’uomo e il cosmo, della crepuscolare nostalgia per un Eden irrecuperabile, da cui l’artista maturo si è separato per prender posto nella carrozza che lo traghetta verso l’inverno.

Non c’è il compimento della serena rinuncia in questo tormentato Intermezzo di Pogorelich. Il tempo è sospeso, l’angoscia vetrificata, in un pellegrinaggio stralunato in una notte interminabile.

Pogorelich ci trascina nella solitudine più acuta e disperata, cancellando con un impressionante ribaltamento il tenore consolatorio del messaggio brahmsiano. Il pianista croato ci mette di fronte a un “doppio” del musicista amburghese, a un Brahms rovesciato, che, come un profilo montuoso che si specchia in un lago, vive nel riflesso del nostro io più inquieto.

Incidente domestico

Mia cara, da oggi sono formalmente innamorato. Viviamo insieme da tempo, ma fino ad oggi l’amore non era stato nominato. Avevamo così deciso, di vivere insieme cioè, in attesa che la nostra attrazione reciproca si esaurisse. Non vedevamo altra via d’uscita. Per lo meno, dichiaravamo di non vederne. Sono sempre stato consapevole della tua speranza di farmi innamorare, mentre a me non importava nulla che tu mi amassi o no. Preferivo anzi una vita senza le complicazioni del sentimento. Ora, tutto è andato secondo i nostri desideri: io mi sono innamorato e tu no. Perciò non dovrei lamentarmi. In effetti trovo che sia presto per lamentarsi, prima ancora di aver saggiato il nuovo stato di cose.

Il fatto che mi sia innamorato di te comporta una miriade di minuscoli cambiamenti. Devo, ad esempio, non solo aprirti la porta, come già facevo perché non ti affannassi a cercare le chiavi, quando suonavi il citofono tornando carica della spesa, ma venirti incontro fino al portone, anzi fino al cancello del vialetto, per sollevarti del carico. Gradualmente dovrò poi abituarmi a uscire con te per far la spesa insieme, e più in là farla tutta io, sempre, non solo quand’è il mio turno, anche quando torno stanco dal lavoro (succede il più delle volte) e a te, che sei riposata, semplicemente non va di uscire. Finora la suddivisione dei compiti teneva conto del tuo impiego a tempo parziale: d’ora in poi, pur non escludendo del tutto questa tua facilitazione, terrà conto soprattutto del mio neofita amore.

Quando sediamo nel divano del soggiorno, non potrò più leggere tenendoti la mano in grembo, ma a volte ti accarezzerò o stringerò la mano, a volte interromperò la lettura per guardarti negli occhi e poi, con minuzioso interesse, la fronte e i capelli, la bocca, la linea del naso, la forma delle narici, la parte del collo seminascosta dai capelli: a quel punto mi verrà voglia di baciarti l’orecchio, o di accarezzarne il lobo, giocherellando con l’orecchino, specie se pendulo e dotato di una pietra dal tenue colore; il mio sguardo scorrerà poi sul tuo corpo, soffermandosi pacatamente sul seno, sulle gambe, le caviglie e i piedi, mentre carezzerò la stretta gonna e farò scivolare le dita sulle calze. Noterò ogni volta che accavalli le gambe, e ogni tanto mi alzerò e mi avvicinerò al televisore per vederti tutta insieme. Resterai imbarazzata nel captare nella mia attenzione un’indiscrezione da estraneo. Il fatto è che la mia nuova condizione mi impone un regresso nella disinvoltura, di cui già in questa prima giornata ho avuto modo di notare diverse manifestazioni: il distogliere forzatamente gli occhi, se ti guardo da dietro e ti volti, quasi che non volessi farti pensare che ti sto fissando; il precipitarmi a fare cose di nessun conto che mi chiedi, come vuotare la pattumiera o tagliarti l’aglio a spicchi; il seguirti casualmente se cambi stanza; il guardarti muovere, fare le faccende, vestire e svestire; soprattutto, la penosa impressione di novità dei tuoi atti: ossia la constatazione che non riconosco più il tuo modo di agire, e ricordo solo vagamente quello precedente.

Immagino che domattina troverò innaturale che tu ti vesta con eleganza per andare al lavoro, mentre a casa indossi un abbigliamento comodo, per il quale mi viene in mente per la prima volta la parola “sciatteria”. Mi sembrerà strano che ti fermi a fare straordinario, non perché abbia dei sospetti – però la frase che mi hai detto una volta, che tutti gli uomini del tuo ufficio sono brutti, che accolsi a suo tempo con indifferenza, anzi quasi gongolando, mi suona ora leggermente inverosimile – non, dunque, perché già sospetti di te, ma perché mi pare crudele e insulso che, per poche migliaia di lire, ti privi del piacere di stare insieme qualche ora in più. Ti privi? Privi me del piacere. Ma a te che effetto fa stare insieme? È allarmante non essere certo della risposta. E poi, tutto quel tempo che passi da sola fuori casa, la mattina in ufficio, il pomeriggio a fare commissioni. Tutti quegli sguardi maschili che si appuntano su di te, monotono martellare di cui a me non giunge neppure l’eco. Che effetto fa, a una donna, disporre di tutto quel tempo e tutta quell’ammirazione gratuita, sapendo che le basta uno sguardo per tirarsi dietro qualsiasi uomo le piaccia? Meglio non pensarci. La sera, fortunatamente, la passi sempre con me. Ancora. Ma devo starmene con le mani in mano ad aspettare che una sera mi annunci un pretesto per startene fuori casa?

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Mio caro, dici di esserti innamorato di me, e non ho motivo di dubitarne, anche se lo annunci a meno di ventiquattr’ore dal fatto, il che rende consigliabile prendere alcune precauzioni. Non mi abbandonerò, innanzitutto, alla minima lusinga. Ti assicuro che il tuo innamoramento non mi rende fiera: è un incidente della natura, che dimostra, forse, qualcosa a mio vantaggio, ma è un vantaggio di cui non m’importa niente e che inoltre non saprei come sfruttare, benché tu supponga in me molta più astuzia di quanta ne possieda. Nego, poi, di averti taciuto l’intenzione di sedurti, che presumi abbia avuto fin dall’origine del nostro rapporto. Semmai tu, che con mille gentili acrobazie facevi sfoggio delle tue migliori possibilità, miravi a cogliermi in fallo di sentimento. Lo notavo, nella mia affaccendata modestia, e ne sorridevo. Non però con scherno: il tuo, in fondo, non era che un tenero e innocuo armeggiare a mezzo fra il tubare e il fare la cresta. Non nascondo che la tua dichiarazione mi ha lusingata, come donna, oltre ad aprirmi la prospettiva di una vita più comoda, se il tuo desiderio di aiutarmi non si sgonfierà troppo presto. Ma da qui a parlare di orgoglio, alterigia, crudele compiacimento, ce ne corre. Sono sentimenti che non mi si addicono, troppo mediocre come sono per mettere a frutto una qualsiasi vittoria, specie se immeritata. Come la seduzione fu inconsapevole, così la supremazia, se di questo si tratta, è inerme. A dispetto della prudenza con cui mi esprimo, che mi viene solo dal timore di perdere tutto per troppa immediatezza, sento che potrei essere ferita da te con la punta di uno stelo. Credimi anzi se ti dico che vorrei riuscire ad amarti, se non altro per riequilibrare le sorti della nostra convivenza, che uno scossone di questo genere potrebbe far tombolare giù dallo stretto asse sul quale la stavamo spingendo a bacchettate, io da destra e tu da sinistra, a volte scambiandoci i lati ma senza mai passare entrambi dalla stessa parte. Sarebbe per me onorevole incontrarmi col tuo amore, che naviga alquanto sopra la mia testa. Vedi, mi perdo dietro le chimere e non so apprezzare i tuoi slanci concreti, pieni di fuoco terreno e plausibile devozione. Cosa ho fatto per cambiarti? Per cambiare, in te, la tua idea di me, che già la mia ritrosia starà facendo di nuovo virare verso chissà quale rotta? Null’altro che sforzarmi di non fare niente. Ciò che stai cercando di farmi credere, e che una donna più sagace avrebbe già preso per vero, rallegrandosene, ha annientato ogni mia volontà di azione e di corresponsione. Quello che appare ai miei occhi trasognati è la lunatica figura di un saltimbanco di gomma, che storce la bocca e deforma le membra per trasformarsi, e ci riesce, in tutte le parole che vuole. Un amore elastico e funambolico è ciò che mi offre: ho paura di accostarmici, paura di essere sbalzata nella regione dei trapezisti. Perciò appoggerò dei pesi sulla tua dichiarazione di oggi: se la sua ossatura risulterà abbastanza robusta da non schiantarsi, forse non ci separeremo. Perciò, anche, mi divincolerò come un’anguilla: se le tue mani, cosparse di talco, manterranno una presa sufficientemente forte da bloccarmi, mi fermerò, ma non prima di essere esausta.

*

Perché mi chiedi prove degne di un cavaliere medievale? Perché corri lungo i corridoi, chiudendo le porte dietro di te? Me ne starò in un angolo del soggiorno, senza toccarti, senza guardarti, senza pensare a te, se ci riesco. Sapevo che la parte più dura sarebbe cominciata adesso. Mi aspettavo un cannoneggiamento in risposta alla mia civile incursione nelle tue terre. La mia ubriacatura non poteva non trasmetterti un poco d’ebbrezza. Abbiamo sempre bevuto insieme: in questo, almeno, la nostra concordia è stata perfetta. Accadeva, anzi, che se uno dei due beveva in compagnia altrui, lontano da casa, l’altro in cucina fosse colto da stordimento e facesse schioccare la lingua, mentre la cucina si riempiva di tanfo di vino.

Sono certo che stai per contestarmi l’arbitrio di questa versione: non sei affatto ebbra, o, se di ebbrezza si tratta, ne è un tipo particolare che serba intatta la lucidità. Non voglio mettermi a questionare su una cosa tanto irrisoria. Non sei ebbra, te lo concedo. Non hai raggiunto il mio stato di alterazione. Ma cos’è, dunque, la tua fuga precipitosa davanti ai miei lineamenti rimescolati dalla passione, se non la paura di appassionarti anche tu? Cos’è il tuo timore, se non panico? Le nostre due braci devono o soffocare insieme o venir rimestate allo stesso tempo, dalla stessa mano, che fa la spola tra i due camini dirimpettai. L’attizzatoio è già sporco della cenere di entrambi. Negati finché vuoi: corri in cima alla scala: già sai che mi troverai in solaio ad aspettarti.

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No. Ti rispondo di no, ancor prima di sapere cosa significa questo no. Non mi pesa ammetterlo, un significato non è difficile pescarlo, fra i cento che mi pullulano davanti, venendo a turno a galla. Perciò ti lascio immaginare quello che preferisci. Una cosa posso spiegarti: rispondo di no alle soluzioni immediate che, con sbrigatività maschile, vorresti propormi. Ti dirò dunque cos’è che non si può fare.

Non posso, anzitutto, amarti, né subito né, forse, in seguito. Se ti dicessi che lo potrò, sarebbe come dirti già ti amo; se negassi con energia che ciò possa mai accadere, lo sforzo che il rigore di questa presunzione richiede mi farebbe capitolare anzitempo.

Né posso incoraggiarti nella tua esaltazione: sarebbe una responsabilità troppo grave, una minaccia continua alla mia pace; tenerti a bada, un compito sfibrante.

Nemmeno è più lecito arretrare al punto di partenza, che solo ieri era a portata di mano e oggi sembra smisuratamente lontano. Mentre puntelliamo in fretta la parte visibile dell’edificio, sappiamo che uno scrollone ne ha minato le fondamenta: perciò dobbiamo amministrarci con giudizio.

Odiarti? L’idea mi fa sorridere. Non ne ho motivo, non ne ho voglia, ed è un’evidente ingenuità. Dove approderebbe, infatti, un odio irragionevole e puntiglioso? Ti porrebbe (niente di più irritante, per me) in una luce di nobile sofferenza, tale da far illanguidire la stima che hai saputo strapparmi col metterti in una posizione di aperta inferiorità; senza quella stima, divenuta ormai troppo importante, anche una placida convivenza da amici mi riuscirebbe insopportabile. Per non parlare di possibilità più intime, compromesse per sempre. Ti attireresti così altro odio, stavolta più sincero.

Lasciarci, solo perché non abbiamo la tenacia di sopportare un’evoluzione spontanea del nostro invischiamento, sarebbe come lacerare un tessuto fine sul quale delle lavoranti stanno ricamando con sapiente artigianato.

Separarci per un tratto di tempo non sarebbe meno vile, e non farebbe che procrastinare il dilemma.

Non resta, dunque, che solcare lentamente questo mattino troppo bianco, gravato di nubi abbaglianti, tacendo e dolcemente in pena, finché l’ovattata chiarezza del cielo non trascolori in notte piena e limpida, in cui l’amore smetta di apparirci la prova d’ardimento o l’azzardo che era di giorno.

3/4/1983

Durante una corsa

Lui le parlava di una cugina che doveva arrivare da Sondrio col treno delle 22.10, di quanto sarebbe stata contenta sua sorella di rivederla, del lavoro del marito di questa cugina. Lei rispondeva con voce strascicata, guardandosi in giro, con un’attenzione annoiata alle parole e alla presenza dell’anziano compagno. Non era bellissima, ma attraeva: aveva il viso lungo, dalla pelle morbida e tesa, molto chiara, disseminata di efelidi quasi invisibili; aveva le labbra piene e i capelli biondi, leggermente scompigliati, con la riga da una parte. Uno sguardo di rimprovero appena accennato, reso più buio dal trucco e dagli occhiali affumicati, accentuava la sensualità del volto. Teneva le spalle curve in avanti, ma forse era solo la postura da seduta; si aveva però l’impressione che avrebbe mantenuto un portamento rilassato anche quando si fosse alzata.

Il giovane che le stava davanti, in piedi, e quasi le sfiorava le ginocchia con le gambe, la guardava con attenzione un po’ avida, facendo scorrere rapidamente lo sguardo dall’apertura della camicetta, che mostrava soltanto un lembo di petto, alle mani inanellate e magre, alle scarpe, di cui emergeva la punta, con il dorso del piede velato, dall’orlo della gonna a strapiombo; infine tornava a fissarla in viso, in parte sinceramente interessato, in parte simulando desiderio, come per sollecitarne lo sguardo di risposta, che infatti arrivava; la donna sembrava allora svegliarsi per un attimo dalla svagatezza con cui accoglieva le parole del suo compagno, che le parlava con tranquilla premura, inarcando le sopracciglia, appoggiato di sbieco al suo sedile.

Alcune ragazze circondavano il giovane, un paio carine ma piccole: non gli interessavano. Una sola, sui vent’anni, l’avrebbe attratto se l’avesse vista bene, ma gli dava le spalle; nel parlare con un’amica, scuoteva vicino alla testa di lui i capelli bruni, lunghi.

Il giovane si stirava spesso la schiena, premendo il palmo della mano al corrimano al quale si reggeva, e inarcando il petto in fuori non senza una spavalda civetteria. Una curiosità pigramente turbata stava fermentando fra lui e la donna, se ne rendeva conto pur con l’impressione, già avuta in passato e confermata dai fatti, che un tale ozioso rapporto sarebbe rimasto sterilmente visuale.

A un tratto la donna, gettata un’occhiata fuori dal finestrino, si alzò e, nel passargli accanto per avvicinarsi all’uscita, gli lanciò uno sguardo che doveva parere neutro; l’uomo anziano la seguì e le si mise a fianco davanti alla porta. Il giovane stava adesso col braccio steso premuto contro la schiena di lei, e la guardava ogni tanto. Alla fermata i due scesero; lui la seguì con gli occhi. Poi si rivolse all’interno della vettura e vide la ventenne, che nel frattempo si era voltata. Aveva un volto bellissimo, perfetto, l’amore in persona.

31/3/1983

Passeggiata

Tutta questa gente inimitabile. Camminano per le strade in quel loro modo… peculiare… Hanno un modo tutto loro di animare le strade, di dar vita… a una folla… come si mescolano, come vanno vestiti, come si girano a guardarsi… tutto l’assortimento… ondeggiante, carico di colori e di sguardi, e di gambe… mi piace guardarli, come se fossero lì per farsi guardare da me; non mi sento uno del gruppo, mi sento un osservatore, l’unico osservatore, colgo a volte del fastidio nelle loro espressioni, nel loro modo di passarmi accanto tirando dritto, specie le ragazze… dev’essere fastidioso sentirsi una massa osservata… intendiamoci, non mi metto a fissarli, a seguirli per un pezzo, appena qualche occhiata fugace; però è strano come se ne accorgano, o sembrino farlo; lo capiscono, in qualche modo, non so da che; la loro reazione è l’alterigia, ostentano indifferenza, no, disprezzo e superiorità: noi siamo qui per qualcosa, hanno l’aria di dire, per un motivo plausibile, non come te che vaghi come uno sbandato, e ci guardi; abbiamo il nostro da fare, mica come te… sanno come farti pesare le cose… sono una folla disordinata e incoerente, ma astuta… e tutti quegli intoppi, quei lavori in corso, che ti costringono a spostarti dal marciapiede, a buttarti in braccio alla folla, tutti quei marciapiedi strettissimi pieni di passanti… quelle strade del centro storico chiuse al traffico, invase dalla gente… non puoi fermarti nel mezzo e startene in santa pace a guardare, non puoi, verresti rimosso, ti farebbero sloggiare, non puoi proprio… nella folla guardo soprattutto le ragazze, ma anche i tipi strani, i turisti, i vagabondi, gli uomini scandalosamente obesi, tutto ciò che mi colpisce, che cattura la mia attenzione, anche se sono portato a selezionare le ragazze, specie quando ce n’è un mucchio, e tutte carine, comunque una quantità e… mi piacciono, vorrei fermarle tutte… invece le vetrine no, non le guardo, i negozi, caccia e pesca, vernici, abbigliamento, scarpe, non mi interessano, mi stanco a passarli in rivista, tutti quegli orologi in mostra, non parliamo dei piatti e del vasellame e di oggetti decorativi, le farmacie, anche quelle mettono in vetrina qualcosa, spesso sono le cose più interessanti, è il tipo di merce che stuzzica la curiosità… dopo mezz’ora però non ne posso più e devo prendere un autobus.

Marzo 1983

Gli affogati

Gli altri affogati sono piuttosto simpatici. Non so chi di loro mi ha confessato che da vivo aveva un carattere musone e spigoloso, tutti lo scansavano. Appena affogato, invece, gli è piovuta addosso un’allegria sfrenata, che si è propagata come il fulmine tra i suoi compagni di annegamento, alcuni dei quali già gai in vita, ma per lo più gente grigia, ferrigna, dai pochi sorrisi: tutti abbiamo i nostri grattacapi e una crociera in mare non ce li fa dimenticare, salvo rari momenti in cui non rimpiangiamo la spesa del biglietto.

Non passarono molti giorni che si fondò la Città degli Annegati. La sussistenza era resa facile dalla quantità di alghe diffuse là intorno, che del resto non occorrevano, bastando aprir bocca e ingoiare l’acqua ricca di sali minerali, plancton e altre sostanze nutritive. Non era necessario praticare i mestieri terrestri, operaio manovale muratore ingegnere architetto medico eccetera, a tutto si trovava una soluzione spontanea: le case non servivano, essendo sufficiente avvoltolarsi nella sabbia per scampare alle intemperie – correnti fredde, turbini d’acqua; i mulinelli non li raggiungevano neppure – e mimetizzarsi agli occhi delle fiere marine. Di malattie non era il caso di parlare; quanto alla decomposizione, non c’era rimedio, ma stranamente nessuno se ne doleva: poteva accadere che un braccio o la testa o tutto il corpo si assottigliassero, o che l’individuo “mostrasse il verde”, per usare un’espressione di laggiù; dopodiché, nel giro di qualche ora, le sue membra si allentavano e lui si scioglieva nell’acqua come una pasticca. Nessuno, come dicevo, se ne rammaricava: lo si sentiva sempre vicino, come gli spiriti in un vecchio maniero; del resto era evidente che prima o poi ci si sarebbe tutti ritrovati in quella nuova forma sciolta, in cui si sarebbe seguitato a far baldoria, almeno questo si sperava, visto che i disciolti non lasciavano lamenti o ululati nell’acqua, o stridore di catene, anzi pareva di scorgere in un brillio repentino qua e là, anche dove i raggi del sole non penetravano, una sorta di ilarità impersonale che si attribuiva al nuovo stato di decomposti.

Unica precauzione da prendere, per il momento, era il girare in bande per far fronte agli attacchi dei branchi di squali o altri pesci predatori. Non si badava invece a non calpestare le razze e le torpedini: la scossa era salutare come un’iniezione supplementare di vitalità e di allegria. Quanto alle piovre, i corpi elastici degli affogati riuscivano agilmente a sgusciar via dalle loro spire.

Le strutture sociali della Città non avevano niente della complessità e dolorosità terrestri. Non esisteva commercio né industria né burocrazia, data l’autosufficienza che vi regnava, sotto tutti gli aspetti, perfino nei sentimenti: anzi questa autosufficienza emotiva rendeva rari i litigi e gli odi non meno che gli amori e le amicizie.

23/12/1982

Frammenti

n. 1 – Il cuscino

È un cuscino orlato di pizzo bianco, con una federa color marrone bruciato che dà guizzi viola, se appena lo muovo, alterandone l’ondulazione della superficie, specie quando il sole vibra su di esso un raggio diritto come uno stocco, accompagnato da un largo arpeggio stridente, come prodotto da un fascio di corde metalliche strofinate da una spazzola d’acciaio.

6/12/1982

n. 2 – Cavalieri

L’uomo legato alle visioni di schiere di cavalieri dai manti bianchi che percorrono lo schermo: un indicibile sopore lo prende mentre risuona il passo dei cavalli che si avviano alla battaglia, ed è l’ultima immagine che gli invade le pupille mentre ne scaccia la vita, che nessuno vedrà fuggire dai polsi appesi ai legacci di cuoio.

n. 3 – Il bastione

Il bastione appena destato si stiracchiò, sbadigliò dalle sue venti feritoie, si grattò il cocuzzolo coronato di merli, venne giù saltelloni per la scarpata fino ai ruscelli della pianura, ad abbeverarsi.

n. 4 – Pretesa

Insistete nel pretendere da me delle storie. Ma io non ho storie. Nessuno ve l’ha detto? Le avevo un tempo, così si dice, ma sono stato sorpreso di notte e le storie mi sono state rubate. Del resto, anche se fossero rimaste con me, sarebbero ormai avvizzite e non avrei da mostrarvi che degli stracci flaccidi appesi al soffitto. Ma voi volete ancora delle storie.

8/1/1983

n. 5 – Due uomini

Due uomini andavano a caccia a braccetto. Quello che aveva la destra libera era mancino, perciò si trovavano ugualmente svantaggiati nei confronti della preda. Questa, ben consapevole del suo vantaggio ed inoltre del suo valore – era proprio lei, la preda più agile della foresta, e non un altro animale, che i cacciatori cercavano – bighellonava noncurante per la boscaglia.

19/1/1983

n. 6 – Definizione

L’eternità: sobborgo maleodorante di una città il cui splendore non ha nulla di eterno.

n. 7 – Apologo

Il gallo volle entrare nelle forme del cane, ma al primo tentativo capitò in una spiaggia vuota e assolata, dove morì prima che il cane avesse potuto azzannarlo.

17/12/1982

n. 8 – Uccelli

Degli uccelli si tuffavano e uscivano da una crepa nel suolo. Si tuffavano con precisione, schizzavano fuori con la stessa sicurezza con cui, in cielo, si intrecciano nello stuolo senza collidere.

24/1/1983

Il mercato

Un mercante di cavalli imperversa nel mercato, portando dappertutto la sua voce grossa e a scatti, roca. Le mercanzie degli altri sono inghiottite dal polverone sollevato dalle sue bestie. Vorrei comprare qualcosa dagli altri, ma la sua minacciosa onnipresenza costituisce un serio ostacolo. Il mercato è delimitato da mura basse, ma solo qualche testa le sopravanza di uno o due centimetri. Alcune astronavi piatte e larghe, spigolose, radono una dopo l’altra il muro di teste, ponendo come un momentaneo coperchio grigio-ferro al mercato. La folla non vi bada e continua a contrattare, senza comprare niente. Sono Arabi dell’Aldilà, una razza nuova o in via di estinzione, questo andrebbe deciso al più presto. Mi faccio trascinare dal loro spirito mercantile e in breve tempo accumulo una fortuna. Nel mercato non c’è modo di dilapidarla, del resto quel luogo ormai mi sta stretto, ho bisogno di spaziare sotto cieli più ampi. Il mio ideale sarebbe la pampa. Eccomici infatti trasferito con tutte le mie ricchezze. Indifese, ma avviluppate nella rete del mio controllo. Guardo intorno cercando i gauchos. Nessuno compare all’orizzonte.

Si sta mungendo, in mezzo alla prateria. Mi avvicino a quei pacifici mandriani. Esito ad avviare il discorso, sarebbero restii a rispondermi. Il mio mutismo mi è prezioso come ad essi il loro. Le vacche battono l’aria con le code. È impossibile parlare.

I mungitori si alzano e se ne vanno, tirandosi dietro le vacche. Sono già dei puntini lontani. Resto padrone della pampa. Mi sdraio sul sacco delle ricchezze, faccia al cielo, le braccia in croce, con le palme sui tesori.

20/12/1982

Il piedistallo

Nessuno mi sostiene, nessuno. Sul piedistallo, dal quale non sto per cadere ma potrei cadere, se i calcoli sulla mia resistenza sono esatti. Ogni dieci minuti mi giunge uno scroscio d’acqua dal cielo, solo il rumore, non c’è acqua, non solo perché è un periodo di siccità ma soprattutto perché il cielo è un fondale dipinto, non sul soffitto (il gabinetto è senza soffitto) ma sul cielo reale; la sua ampiezza è comunque immensa, migliaia di chilometri quadrati, eppure la resistenza di questo fondale è buona in tutti i suoi punti. Ma torniamo al gabinetto: non è il luogo ideale in cui collocare il piedistallo, si vede che qualcuno non la pensa così, a meno che non gli sia riuscito impossibile trovare un posto più adatto; in effetti il gabinetto è l’unica stanza di questa casa, l’unico vano, anche; la deduzione è suffragata da numerosi indizi fra cui il principale è la mia intuizione. Non solo il gabinetto è l’unica stanza della casa, ma la casa è l’unico edificio della strada, quale strada, siamo in aperta campagna, case come questa se ne vedono solo in campagna, le chiamano casolari, sebbene di solito occupino un’area più estesa. Ricapitoliamo: gli elementi della storia finora sono il piedistallo, il fondale, il gabinetto, il cielo, io, la campagna, un cane e una pista di pattinaggio, gli ultimi due in occasionale correlazione. Verso sera il cane trotterella sulla pista. C’è sempre un cane nelle mie storie, spesso la sua funzione è più importante della mia. Si tratta ora di definire le nostre due funzioni in questa storia. Lo si può fare più in là, non c’è fretta, il cane lo ha capito benissimo, lo si nota da quel suo indolente bighellonare in lungo e in largo che gli dà un vantaggio non disprezzabile su di me, chiuso in questo cesso dalle pareti basse, a malapena mi giungono all’altezza delle spalle. Vi domanderete perché non le scavalchi, visto che il ripostiglio, lo si può chiamare così, è scoperchiato: cercherò di spiegarvi perché non posso.

Un divieto mi pesa addosso, a volte mi monta a cavalcioni sul petto, a volte mi artiglia le spalle premendo in basso con le mani.

Chi sei, Divieto?”

Io sono il tuo unico Divieto e tu mi devi osservanza”.

Stamattina avevo le idee così chiare su di te, ero pronto a muoverti delle obiezioni, ma la tua voce limpida e tonante mi ha confuso. Innanzitutto, posso muoverti delle obiezioni? Te lo chiedo per il futuro”.

Concesso. Ma a bassa voce: il frastuono della discussione mi disorienta”.

Tu, Divieto, ti fai disorientare?”.

Non è mai accaduto: ho sempre troncato le discussioni appena oltrepassavano la soglia del sopportabile”.

Ahimé”, gemo. Non vedo infatti alcuna via d’uscita. Ma ecco che la parete alle mie spalle si abbatte in frantumi. Cerco di ricomporli, niente è maggiormente d’ostacolo alla liberazione che una parete frantumata, è mille volte meglio saperla fluidamente inserita nel perimetro murario.

Mi si fa incontro una donna anziana, dai capelli nerissimi e dal volto scavato.

Inghiotti i frammenti: in essi, o meglio nel trangugiarli, è il segreto della liberazione. Ma attento: masticarli, se non è proprio sacrilegio, ti impedirà per sempre di allontanarti da qui, pur non opponendosi, in linea di principio, alla tua liberazione”.

10/12/1982

Ricordo

Tempi felici, quando ognuno era libero di erigere le guglie della città vagheggiata senza che le onde televisive, come un mare di aceto, le attaccassero e deturpassero, giungendo a inabissare fino i più alti pinnacoli.

Un rapsodo nostalgico, pizzicando la cetra, canta l’estinzione del suo numero civico e della sua famiglia, seduto al bordo di un altopiano che guarda il macerarsi della città; poco distante pascolano i discendenti degli abitanti, ridotti a buoi che alzano ogni tanto la testa sul collo potente, volgendola in direzione della città, che considerano con occhio tranquillo, non essendo per loro altro che assenza di pascolo.

7/12/1982