Mi sarebbe piaciuto vivere un’altra notte

Mi sarebbe piaciuto vivere un’altra notte, ma come superare la stanchezza poetica,

come portare il piombo tagliato, respingere tanti lamenti?

L’invasione lunare copre la valle di licheni, un dio blu si inerpica sul mondo e di lì scruta le cime dell’erba.

I palazzi svoltavano, io ero e sono amareggiato perché il gregge è simbolo di città e non di campagna

e le piastre su cui cuoce il pane sono più fredde del silenzio.

Il pane verrà con la vittoria, un domani,

c’è da sperarlo, dico ai miei pastori: intanto radunate le campane, modulate la terra,

comprate ciambelle e sostituti meccanici della salvezza.

Resto fra i medicinali, sperando

e ricominciando a camminare, dipingendo fiori selvaggi

sulle fronti bianche. Vedrete che il diluvio porterà una carta di colomba

con un intero uliveto. Vedrete a marzo

quanta abbondanza latente, quanti fichi di pioggia, che reti ventilate;

si terrà un’assemblea comunale o un consiglio di amministrazione per disperdere i fondi

perché la raccolta sarà un privilegio di pochi ricchi, e gli altri sfonderanno i cancelli

mimetizzandosi con cestini da viaggio o giardini zoologici.

Sentirete il fischio, il raglio della luna, le giornate come girandole appese al tempo;

piangerete, perfino, per il solletico dei sapori estivi,

leggerete libri appesi agli alberi come le serpi appisolate sui muri orizzontali.

Ci sarà una sola grande festa settaria, un solo colpo di striscio

e un solo barile di folla, e una sentenza depositata sulla piazza,

poi finirà, quasi tutto, per ricominciare a poco a poco

e crescere e di nuovo assottigliarsi, ma insieme al fuoco

sotto la frutta, come i bracieri sulle terrazze.

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1971

Ritorno

La pista era ingombra di sale. Dovemmo voltare i muli e avvisare la retroguardia: cominciava il ritorno in sordina.

I carri di papaveri furono i più lenti a voltarsi. Le autorità osservavano sonnecchiando in disparte, senza proibirci nulla. I mulatti grondanti spostavano senza sosta le statue di creta; mute di cani trascinavano gli anelli giganteschi; i camion bloccati venivano abbandonati alla grandine.

Dovemmo ammazzare le formiche sulle tavole e disboscare i canaloni invasi da felci mezzo brucate; caricare il burro e le capre su una sola slitta (l’altra era riservata ai costumi per le recite).

Già al secondo giorno avvertimmo l’artrite dei deserti, che colpisce le mandibole: tutti i medici furono uccisi, le loro pelli date in pasto ai castori che saltellavano sulle pietre. Alla frontiera ci guardarono dalle torrette e spararono su uno dei nostri discepoli, il più mite; ma non ci disperdemmo e riuscimmo a impadronirci di una fune, che servì a trasportare la carovana e gli ostaggi al di là delle strette porte doganali. Ormai non ci rimaneva che superare la tettoia fiancheggiata dai dragoni prima di giungere alla ferrovia in rovina: per 15 minuti viaggiammo con strisce di fumo alle spalle, tra una fila di lombrichi a sinistra e un dirupo a destra. Sugli Appennini distrutti ci capitò un incidente diplomatico: uno dei nostri mandriani incornò la capanna prefabbricata di un Segretario di Stato. Proseguendo, alcune donne con torte sul petto ci salutarono dai giardini telegrafici e una nave ci tagliò a metà.

Il settimo giovedì fui io a vedere per primo il cartellone pubblicitario che annunciava il traguardo e l’Esodo. Tutti gli occhi si riposarono, il paradiso ornitologico dei nostri baracconi frullò ad appollaiarsi sulle aste rosse, anch’esse finali; una ragazza si sedette sulla banchisa, e fu il suo solo svago.

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1971

Sul cespuglio nidifica un’aquila di borro

Sul cespuglio nidifica un’aquila di borro

la cui salute è distribuita in un calice

che il pontefice offre a una pentita Salome

errante nel cane delle nebbie sulla collina cava

come una chioccia si riflette nel cranio elicoidale del sole.

Il mio sguardo sorpassa l’isola e si cerca nel crepuscolo

di una mentita gora. Giove si scrolla dal grembo la muta di scarabei

trafitti in cima ad Elios.

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1971

Quando attraverso i cortili

Quando attraverso i cortili e mi investono pozzi incendiati

quando mi rintano negli anditi sporchi, nei saloni in rovina

quando spio dalle soffitte il movimento delle terre e la forza caustica degli oceani

e un nano passeggia nelle mie tasche

si può dire che è giorno, e che eserciti o mani di massaie muoiano senza dire nulla

che stracci spiovano alla luce

sia nei silenzi che nelle latitudini.
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1971

Un pane d’acqua spenta

Un pane d’acqua spenta, di infanzie nel vortice, di Caucasi lamentosi.

Un terribile cocchio lo trascina e lo sparge attorno.

Dalle ossa interrogate un vento sinfonico,

una narrazione concisa: fui, nell’oscurità, petalo assolto

addentato da un’orda biancheggiante, in un monastero a sud.

Questi gli accenti: e d’altra terra padri incappucciati

con versi, salmodie, recite, danze

su cataste babeliche, su infiammati solai dove anche un aguzzino prende fuoco

e si circoscrive nei toni e nella parlata lugubre

gettando fiori alla selvaggia esitante all’estate pensosa (è colei che si bagna

nel triste cognome degli scoiattoli, nel ventre della lanugine).

Fieramente sul podio

un vascello vagante: teologo disalberato.

Come rappresentarlo? Con la fede tra capo e collo

e la sferza di Dio sulle sue vele.

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1971