Decretai due editti

Decretai due editti, quindi scesi nella piazza. Era una calda giornata floreale; gli altri monarchi passeggiavano sotto le nubi di maggio, a braccetto, biasimandosi i manti e ripudiando gli strascichi. Ai balconi, un afrore di luppolo vergine ingentiliva la sera.

Un cavaliere accorse al galoppo: recava al guinzaglio un cavaliere nano su un cavallino, con un dispaccio nella sella. Il cavaliere adulto crebbe rapidamente e sulla sua fronte spuntò un diadema da regina, mentre il cavallino disarcionava il suo distratto cavallerizzo, che si affrettava a consegnare il telegramma ai re-fantini.

Non osando consultarsi, i regnanti lessero in silenzio e meditarono ciascuno la sua risoluzione, che comunicarono alle polle e alle caverne.

Gli avventurieri, in gruppo ma ognuno con occhio solitario, si disputarono a carte il privilegio di intraprendere gesta cantate e degne di ribalde celebrazioni. Gli esantemi fiorivano sui loro gomiti.

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Perché le storie repubblicane non hanno fascino? Il medio sognante evo del mondo, fiume tenebroso di favole nordiche, si sbraccia nelle nostre allucinazioni di vegetali. Lampi radi, ardendo i viaggi tra le colline buie. 

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19/9/1982

Piaceri d’acqua sovrana

Piaceri d’acqua sovrana

lungo il convoglio di luce nel letto di scorza.

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La foresta-sillabario allarga la sua fronzuta sapienza sullo scatto fulvo degli occhi.

In mezzo ai convolvoli, l’incenso di teosofie preserva

gli altari occulti su cui macera il fauno.

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Il plettro e la magnolia, nati dalla mano ondeggiante nel benzuino selvaggio.

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Aruspici gravidi, con la mano sul capo del coguaro; uno schiocco di coda, e si sposta il miracolo alitante lungo l’infinita carrabile.

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L’elettrica panoplia, in serbo per i domatori di stelle, cresce come gemma sui cespugli di vetro.

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18/9/1982

Mi levo sulle stuoie

Mi levo sulle stuoie, ponendomi a questa

finestra che inquadra residui di architettura:

mezzo frontone, un mozzicone di campanile,

un tratto di ballatoio;

le nubi che insoddisfatte riedificano

senza posa le loro sculture.

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Compongo il mio profilo sul perno celeste,

soggetto ai climi, ai densi umori planetari, 

intorbidato dall’acqua delle mappe.

La mia vita si spende nella pagaia:

sensazioni flessuose si accomiatano alle anse,

richiami di fiere oltrepassano il corpo ammutolito.

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Prigioniero del lucernario

risalgo i raggi sconfitti

(affondano nel ventre della casa)

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L’orazione spezza per sempre i suoi scudi:

muore nel fulgore ellenistico, come statua ripudiata,

muore tra l’incertezza e la fatica, come una talpa invecchiata,

e infine muore, asciuttamente, con labbra grinzose.

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Questa dovrebb’essere, e non è, la fine:

la penna riappare sull’ala, i luoghi s’empiono di parole,

il canterano di vecchi tessuti abusivi e neri cimeli.

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Chi può dire, tra breve, che altre fole

racconteranno ospiti semiseri

rimestando la cenere nei piatti?

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9/9/1982

Arioso

Il villaggio strumentale versa dal fianco il suo spumante di frasi intermittenti sull’area monotona degli astanti; con aerei calzari imprime rapide sofferenze su quelle teste appagate; marosi di note salgono ai loro occhi, attentano alle scriminature in ordine.

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Noi che, usciti dal rosso minerale

del sonno, in stazioni d’alta quota,

leviamo avidi, nel calice, la febbre,

non riudremo, in salotti sconsacrati,

l’avvenente celeste scalpiccio

dei clarini, la bianca solitaria

cavata della viola, od il profondo

tuffo dei timpani nel cuore.

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In scontrosi deserti capovolti

il cui soffitto di dune il grido irriga

d’equipaggi in pericolo,

arrostiremo in dispetto lucertole

d’ora in ora smarrendo della mente

il volo indeclinabile.

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19/8/1982

Sotto la compattezza verde

Sotto la compattezza verde

del lago, qualcosa guizza e si perde

incenerendo le mani meste.

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Le quattro tombe di teste coronate

spargono sospiroso sidro.

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L’auriga insanguinato, dalla testa d’oro,

compie il suo periplo, inimitabile

circolo dissolvente, senza stento

rigettando moti e appetiti

dal bacino del volo.

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10/8/1982

Il poema caudato

Il poema caudato

mi ottenebra al centro dello squalo;

adunghiato alla milza, trespolo sofferente,

si monda nei miei rivoli.

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“Per quanto ci s’imbratti, la selce ci redime”

dopo la sassaiola

cantano le fiere ossa del merlo.

“E la terra mangerà i nostri salmi”

è il tema che attira motteggi, zufolato

dal porcaro, in lorde notti,

ch’egli spaccia per rose d’agosto.

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La selce rutilante, nel nido dell’assiuolo

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Dietro le alcove rurali, le notti sibilanti.

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30/7/1982