Si affatica sull’erta il violoncello

Si affatica sull’erta il violoncello

che non ambisce alla gloria ma a spezzare

la pietra quotidiana

gemendo di preghiera,

risalendo la china della luce,

straniero tra i nidi del gorgheggio,

oscuro agli amanti

di vaghe barcarole

rapiti da un frullo di sandali

nelle indolenti astanterie del mare.

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Noi che chiniamo la testa al rigore

del suo aratro di stento, che apre i nostri

territori di cuoio,

sostiamo attenti all’attimo

trepido in cui l’archetto

inaspettato busserà al cuore,

alla sua voluttà di eruttare.

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20/2/2024

Principi viziosi nelle torri d’anice

Principi viziosi nelle torri d’anice

sorbiscono da coppe ancestrali i glaucomi,

gocce piovute dal soffitto in cancrena.

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La sorpresa ribalta i loro occhi avariati

uccide le consorti con garofani astratti.

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Piego la testa ciondoloni, e quasi

l’enorme peso ne recide il gambo

in un sussulto di stami scarlatti.

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Scendono i principi dal capo ronzante

porgono il braccio galante alle defunte

e di conserva muovono alla reggia

come agli altari del domino d’ombre.

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29/5/1988

Sotto la compattezza verde

Sotto la compattezza verde

del lago, qualcosa guizza e si perde

incenerendo le mani meste.

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Le quattro tombe di teste coronate

spargono sospiroso sidro.

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L’auriga insanguinato, dalla testa d’oro,

compie il suo periplo, inimitabile

circolo dissolvente, senza stento

rigettando moti e appetiti

dal bacino del volo.

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10/8/1982

Quale pudore mi trattiene

Quale

pudore mi trattiene

dal dire: “siedo e penso”?

Il quartiere mi gravita intorno come una giacca,

distribuisco la folla nei viali,

annuso vie, edifici,

volto strade come pagine.

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Fedele all’iniziativa cosmica, alla novità del dovere,

abbandono le famiglie e il ginepro

per piantare, tra l’amante e il volto,

l’ala del gesto nelle commessure silenziose.

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Gli arazzi, i vessilli

(il loro risciacquo sulle pietre intontite)

gli accessori e ciò che è modesto

attendono con bramosia di folla

il compiersi dell’immensa sagra, da cui li esclude

non un decreto né un pulpito, ma un lavorio di paziente acrimonia,

un acciottolio di volumi stridenti.

Parole irsute e cenni esaltati

si accalcano ad ogni passaggio

della pialla sul mondo, come trucioli minacciosi.

Invano mi schermisco:

eroi mostruosi, dai monili guerreschi,

e picchi e alberature deformi, e oggetti straripati dal Suono,

fra cui dicotiledoni, ed aspre citazioni mi catturano:

curiosanti drappelli di Mirmidoni

malva e pervinca

dalle teste incidentalmente affioranti

con cappelli di torba, di raschio, d’ugola

ed ancora il colore allo sbaraglio,

la corsa senza moto e senza luogo,

il cielo che astutamente finge il volo degli uccelli.

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Non v’è dolore in questa riscossa verticale,

totale, dell’amaranto: v’è arsura

come di fuoco spalmato sui muri,

fuoco grezzo, slittato

da poderosi versanti,

fuoco di ciglia, elastico,

prometeico, inutile,

come l’invetriata contro la vita.

Sospiriamo, al di qua dei vetri.

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15/5/1982

Secche sentenze come scariche di elettroni

Secche sentenze come scariche di elettroni su un’area gibbosa

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L’angoscia formale occulta più torbide inchieste

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Voglio e non voglio dire: temo la luce procellosa del deserto

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Altrove, nel rame e nella testa recinta,

divampa un’ittiomachia

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Il mio rifugio è nell’ospite di fango

dove, tra vespri e alicanto,

digrada un arto d’angelo

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(altrove, nel vivo e nella fiamma scoscesa)

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24/3/1981

La testa

La testa. Il primo punto colpito dall’esplosione. Non so bene cosa sia esploso ma è stato molto vicino. Non mi ha ferito, credo; non rintraccio segni di ferite sul mio corpo; eppure in qualche modo mi ha colpito. In quali punti? La testa, ho detto. Indubbiamente. Da allora non è più la stessa. Nel ragionare, forse. Ma se sragionassi non me ne accorgerei: mi crederei assennato. Tutti gli usciti di senno sono convinti della propria lucidità: la prima cosa che si perde quando si impazzisce è la facoltà del dubbio. Ma allora cosa. La memoria. C’è forse qualcosa che non ricordo? Mi accade spesso di non. Di non riuscire a ricordare a cosa stavo pensando. Sarà la distrazione, mi dico. Ma perché mi distraggo? Mi scappa di mano il filo dei pensieri e mi accovaccio sul pavimento e sto due ore a cercarlo e non lo trovo. Trovo tante di quelle cose che non mi servono. E inizio dieci lavori e li smetto. Sì, ne smetto uno per farne un altro. Poi smetto quello perché… perché non si arriva, non si arriva a far tutto. La mia finestra dà sulla strada. La mia porta sulle scale. Uscire. Perché non posso? Cioè, non voglio. Ho detto posso ma era voglio. Giusto. Stramazzo sui cuscini, lascio ciondolare le gambe sul divano. Ecco: dormire. Questo non posso fare. Non quando voglio. Dormirei di giorno ma non me lo permettono. Anche restare sempre vigile non sta bene. Come sono irritanti, noiosi, con quella mania dell’attenzione continua. Lasciatemi stare. Non vedete che ho sonno? Sono io che, per puntiglio, seguito a lavorare come un automa. Anche se per scherno mi lasciaste dormire, non raccoglierei l’invito. Non fate che provocarmi; vi oppongo il mio strenuo lavoro, solitario e ronzante. Ho la sensazione persecutoria che non ve ne importi nulla: beffardi, mi vedete affannarmi qua e là, mentre mi tenete un dito sul capo; quasi ad insinuare che giro a vuoto ed è inutile che mi dia tanta pena. Tutto ciò lo lasciate intendere con un sogghigno alle mie spalle. Di chi è la colpa se sono ridotto così? Voi avete avuto la vostra parte in ciò. Non ve lo rinfaccio, sono troppo orgoglioso per farlo e non ne ho le prove. Non che mi servano: so però che sareste pronti a rimbeccarmi, se mi esponessi senza prove. E il mio orgoglio, ancora una volta, rifugge dalle facili sconfitte. Mi indispettisce vedervi trionfare e insuperbire del trionfo. Ingoierò anche questo rospo, e voi lo sapete, perciò calcate la mano. Se uno è troppo diritto, lo svillaneggiate. Il mondo è dei mascalzoni. Sono passato da me a voi. Voi siete divenuti il fulcro delle mie secrezioni biliari. Vi maledico per sempre. Maledico anche questa testa che ronza, che fruscia. Chi la fermerà? Dovrei cedere all’istinto di fuggire, di prendere le armi, ribellarmi con l’urlo e non col mutismo, rotolarmi per terra e dare pugni nel muro. Invece penso, leggo, guardo. Mi imprigiono. Chiudo la cella a chiave dal di dentro e metto la chiave sotto il cuscino. Almeno non la butto dalla grata. Ma sarà poi vero che non l’ho buttata? Ho mai provato a guardare sotto il cuscino? Tutti i giorni controllo e la chiave è a posto, mi dico. Ma con inquietudine ammetto intimamente che non controllo mai.