Quale
pudore mi trattiene
dal dire: “siedo e penso”?
Il quartiere mi gravita intorno come una giacca,
distribuisco la folla nei viali,
annuso vie, edifici,
volto strade come pagine.
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Fedele all’iniziativa cosmica, alla novità del dovere,
abbandono le famiglie e il ginepro
per piantare, tra l’amante e il volto,
l’ala del gesto nelle commessure silenziose.
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Gli arazzi, i vessilli
(il loro risciacquo sulle pietre intontite)
gli accessori e ciò che è modesto
attendono con bramosia di folla
il compiersi dell’immensa sagra, da cui li esclude
non un decreto né un pulpito, ma un lavorio di paziente acrimonia,
un acciottolio di volumi stridenti.
Parole irsute e cenni esaltati
si accalcano ad ogni passaggio
della pialla sul mondo, come trucioli minacciosi.
Invano mi schermisco:
eroi mostruosi, dai monili guerreschi,
e picchi e alberature deformi, e oggetti straripati dal Suono,
fra cui dicotiledoni, ed aspre citazioni mi catturano:
curiosanti drappelli di Mirmidoni
malva e pervinca
dalle teste incidentalmente affioranti
con cappelli di torba, di raschio, d’ugola
ed ancora il colore allo sbaraglio,
la corsa senza moto e senza luogo,
il cielo che astutamente finge il volo degli uccelli.
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Non v’è dolore in questa riscossa verticale,
totale, dell’amaranto: v’è arsura
come di fuoco spalmato sui muri,
fuoco grezzo, slittato
da poderosi versanti,
fuoco di ciglia, elastico,
prometeico, inutile,
come l’invetriata contro la vita.
Sospiriamo, al di qua dei vetri.
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15/5/1982