Quattordicesimo giorno di prigionia. All’aria aperta. Neanche l’ombra di un muro, di una grata, di un portone. Solo terra, a perdita d’occhio. Neanche una vanga per zappare. Perché zappare? Non sono contadino. Si vede, altrimenti sapresti che per zappare ci vuole la zappa. Solo aria e terra. Nessun guardiano, nessun altro detenuto, nessuno. Non sono incatenato, sono libero. Cioè, prigioniero. Libero di muovermi ma prigioniero. Di chi? Come faccio a sapere che sono prigioniero? Ho provato a fuggire, ma invano. Fuggire da che? Da questa terra. Mi sono spostato. Ieri. Anche l’altro ieri. Anche il giorno prima. Dal secondo o terzo giorno di prigionia. No, dal primo. Ogni giorno mi sono spostato. All’inizio facevo qualche chilometro. Ora ne faccio cento o duecento al giorno. Non vado sempre nella stessa direzione. Oggi sto andando ad ovest, credo. In questo momento sono seduto, ma quando riprenderò a camminare andrò in direzione ovest. Se il cielo mi assiste. E le gambe. Le gambe sono sfinite. Non si tratta delle gambe: è il morale che è a pezzi. Quattordici giorni senza vedere niente, all’infuori di terra e cielo. Se ci fosse il mare al posto della terra, sarei un naufrago. Invece sono un prigioniero. Di chi? Non so. Perché? Qual è la mia colpa? Si tratta di un fatto lieve o di un crimine? Sono un omicida? Forse un parricida. No, mio padre è morto di pleurite molti anni fa. Anzi, è vivo. È guarito. Non perfettamente, ma parla. Ci sente. E se fosse morto nel frattempo? Non ho sue notizie da un mese. No, da sei mesi. Mia madre, allora. Chi è mia madre? Chi altro potrei aver ammazzato?
Sono in piedi, questo è un fatto. Desidero veramente stare in piedi? Un tempo non mi sarei rivolto questa domanda. Mi sarei seduto e basta. Oppure non mi avrebbe sfiorato l’idea di sedermi. Questo elucubrare, questo almanaccare non sarebbe esistito. Un fatto era un fatto: mi svegliavo, uscivo di casa, rientravo, vivevo la mia giornata. Vedevo molte persone, o poche, a seconda della fortuna. Non stavo a domandarmi in che direzione andassero le mie parole. Erano un mezzo di collegamento fra me e la società. Non erano più importanti degli sguardi, delle risa, dei gesti. Adesso sono un museo: ho bisogno di metterle in fila e passarle in rassegna giorno per giorno, così da non lasciarle cadere dalla memoria. Se tralascio una parola per qualche giorno, è finita. Non ritorna più. E dietro quella se ne andranno altre, ed altre ancora, finché ci sarà la fuga a rotta di collo: accavallandosi, nitrendo, rombando come un fiume scatenato, le parole scapperanno da me e non le potrò più riprendere. Allora sì che sarò veramente solo. Le parole sono i sostituti delle persone. Non posso farmi abbandonare anche da loro.
Devo riflettere. Escogitare qualcosa di nuovo. Non solo camminare: inventare. Le idee spingono avanti più delle gambe. Le idee applicate, ma anche le idee astratte. Lasciarsi andare alle invenzioni è come partorire cuccioli in una caverna. Perché in una caverna? Ricordarsi di trovare una risposta a questa domanda (deve entrarci il motivo che la prole partorita in una caverna è più numerosa, sebbene non sappia donde mi venga quest’idea).
Man mano che passano i giorni, ho sempre meno interesse ad arrivare. Sto benissimo qui, non mi disturba nessuno. Non sono soggetto a critiche, non devo concludere, non sono imbrigliato negli orari e nei doveri. Di padre, di marito, di uomo. Di scapolo, di figlio, di donna. Non sono una donna. Ma sono scapolo, padre? Figlio, sì. Ancora per poco. Come so che è per poco?
Vorrei essere padre. Ed anche nonno. Ma non invecchierò su questa terra. Non c’è bisogno di invecchiare per diventare nonno. Nonni si nasce. O si diventa con l’esperienza. No, non è esatto.
Quanto tempo è che non cammino? Provo a sentirmi le gambe: sono molli. Non ho fitte. Se mi alzassi, forse mi verrebbero. Anzi, ne sarei crivellato: come un mare di pagliuzze. Mi farebbero ripiombare a sedere.
L’importante è decidere di alzarmi. L’importante è decidermi. Ma prima devo mangiare.
Dove trovo da mangiare? Come ho fatto a mangiare durante tutta questa prigionia? Forse ho digiunato. Ma devo almeno aver bevuto. In genere il cibo lo portano i carcerieri. Qui non ne ho mai visti. Però tre giorni fa per poco non davo un calcio a una ciotola di vitto che mi è capitata fra i piedi. Fortunatamente l’ho vista in tempo. Chissà se l’avrebbero sostituita, altrimenti. Non credo che l’avrebbero fatto. Era un impasto lattiginoso, come la polpa di un frutto tropicale. Strano, perché il clima non è adatto. È un clima freddo, brusco, caliginoso, piagnucoloso. Interessante, a suo modo. Ma inadatto ai frutti tropicali.
Era buono? L’ho appena assaggiato. Non avevo fame, avevo mal di pancia. Ciononostante l’ho divorato. Non mi sono accorto del sapore, tanto ho mangiato in fretta. Di solito mastico a lungo. Stavolta però mi facevano male i denti. Dovrei andare dal dentista, ma trovarne uno in gamba da queste parti è difficile. Dovrei girare parecchio. Non ho tempo di girare per scappare e per cercarmi un dentista. O l’uno o l’altro. I denti possono aspettare.
Tornando al cibo, chi me l’ha porto? No, nessuno me l’ha porto. Chi me l’ha fatto trovare? È stato abile, però, a collocarlo proprio sui miei passi.
Ma perché nessuno commenta?
Quindicesimo giorno di prigionia.
Anche questo giorno comincia all’improvviso, senza che ricordi come ho trascorso la notte. Seduto, sdraiato, in piedi? Fermo, in movimento? Dormendo, pensando? Quantunque analitiche, queste domande non hanno il potere di farmi tornare la memoria. È stato sempre così, dall’inizio. Della prigionia. Anche prima. Anche prima non ricordavo come trascorressi le notti. Per lo più dormivo, suppongo. Altrimenti avrei dormito di giorno e questo non lo facevo, lo ricordo bene.
Una volta ero capace di elevarmi a pensieri eminenti, spirituali. Ora non è il caso, ho altro per la testa. Eppure, quale occasione migliore di questa? Non soffro il freddo né la fame né il sonno. L’unica cosa di cui soffro è la curiosità. Neanche questo. Mi pongo domande continuamente, ma non soffro di non saper rispondere. Cosa mi è successo? Una volta ero curioso. No, non sono mai stato curioso. Ma bisognerebbe esserlo, nelle mie condizioni. Il rimorso è un’altra cosa di cui non soffro.
Immaginerò di incontrare qualcuno, forse è l’unico modo di incontrarlo veramente. Quanto meno avrò una presenza fittizia a tenermi compagnia. Ecco che si lascia avvistare, un punto nero all’orizzonte (di notte sarebbe stato un punto bianco, ma dovrei fare un esperimento per esserne certo), sta procedendo verso di me, è qua, mi fissa senza sorpresa, un po’ infastidito (neanche le mie creature sono contente di vedermi, dovrei imporglielo ma non ne ho la forza), come ti chiami? No, non rispondere ancora, la domanda è troppo diretta, non sta bene, sei appena arrivato, riposati un po’, ti ho forse disturbato, eri con una ragazza? Ecco che ricomincio a fare domande personali. Vattene, non ho più bisogno di te. No, non andartene. Ma sì, per oggi vattene ma torna domani. Voglio stare solo. Non sopporto quell’occhio annoiato, indifferente, indolente. È andato? No, è ancora qua. Con le mani in tasca. Mi volto dall’altra parte, non ti guarderò sparire. Non voglio carpire il tuo segreto. Sei ancora qua? Allora vado a letto. Ma dov’è il letto? Mi stenderò per terra. Buio!
Sedicesimo giorno di prigionia.
Come il quattordicesimo.
21/1/1982