Il fuggiasco

Da qualche tempo tutti mi scambiano per un mercante. Per la strada mi imbatto spesso in qualcuno che, al vedermi, trasale, e quando ci incrociamo volta di scatto la testa verso di me e sibila: “mercante!”. Negli ascensori degli hotel, come la gente si accorge di me, si lancia occhiate mute, e non si sa come mi ritrovo isolato in un angolo, bersagliato da un fitto dardeggiare di sguardi nei quali si legge a chiare lettere la parola accusatrice. È evidente che non vogliono sporcarsi la bocca a pronunciarla: in uno spazio così angusto, i più deboli sarebbero colti da tremito, s’imperlerebbero di un sudore nervoso all’udire i più forti proferire quell’accusa febbrile. Perché, poi, il ceto mercantile è così inviso alla società? Eppure no, la mia deduzione è errata: i commercianti sono rispettati, ossequiati in certi casi, la gente quando entra in un negozio si fa umile ed educata, addita con buona grazia i prodotti esposti che vuole acquistare, non protesta alle soperchierie del negoziante, coi suoi modi villani e spicci, le sue bilance truccate, la sua voce ruvida, collerica, le sue percosse, perfino, che anche i clienti più corpulenti accettano quasi con gratitudine, dondolandosi su quel loro corpaccio legato e facendo un viso lungo e contrito con certi occhi languidi da cane. Ma rivolgendosi a me, forse proprio perché non ho una bottega in cui bistrattarli, spiaccicano in quella parola di “mercante” tutta l’ingiuriosa violenza del loro io afflitto, impaziente di rifarsi con crudeltà delle angherie patite.

Corro rasente i muri, attraverso piazze in preda all’ombra, mi arrampico su per la fune del campanaro, fino in cima, dove la campana mi dà un benvenuto assordante. Mi rannicchio in un cantuccio del soppalco, nel timore che vengano ad appendermi per i piedi al posto del batacchio, senza riflettere che la loro inutile sevizie renderebbe un cattivo servizio ai popolani, accorrenti con animo oppresso alla funzione, richiamati da rintocchi smorzati e putrefatti.

Mentre la mia testa arrossata dal sangue continua a frantumarsi contro il bronzo della campana, il mio cervello sballottato forma nuvolette di pensieri, fumacchi acri e maleodoranti che svaporano di sotto alla campana, come soffici babbucce in movimento che emergano da una lunga vestaglia.

Continuerò a pensare, dopo che il cranio sarà ridotto in poltiglia? La concatenazione dei pensieri seguiterà a sciorinarsi nell’aria come la coda di un aquilone?”

Ma non preoccupiamoci di questo, adesso: pensiamo, finché siamo in tempo. Innanzitutto, sono io quello che veniva chiamato “mercante” dalla gente inorridita, o si tratta di un’altra persona? Non è forse un’altra persona ma un’altra novella: sono infatti certo di essere io, il mio stomaco me lo dice, ma ora interpreto un’altra parte, in un altro racconto o in un’altra sezione dello stesso racconto (è quanto vorrei appurare), o questa è invece la logica prosecuzione di quella prima parte, prosecuzione che è anche, nel mio caso, persecuzione, le cose si sono dunque spinte fino a questo punto?

7/12/1982

Diario del prigioniero

Quattordicesimo giorno di prigionia. All’aria aperta. Neanche l’ombra di un muro, di una grata, di un portone. Solo terra, a perdita d’occhio. Neanche una vanga per zappare. Perché zappare? Non sono contadino. Si vede, altrimenti sapresti che per zappare ci vuole la zappa. Solo aria e terra. Nessun guardiano, nessun altro detenuto, nessuno. Non sono incatenato, sono libero. Cioè, prigioniero. Libero di muovermi ma prigioniero. Di chi? Come faccio a sapere che sono prigioniero? Ho provato a fuggire, ma invano. Fuggire da che? Da questa terra. Mi sono spostato. Ieri. Anche l’altro ieri. Anche il giorno prima. Dal secondo o terzo giorno di prigionia. No, dal primo. Ogni giorno mi sono spostato. All’inizio facevo qualche chilometro. Ora ne faccio cento o duecento al giorno. Non vado sempre nella stessa direzione. Oggi sto andando ad ovest, credo. In questo momento sono seduto, ma quando riprenderò a camminare andrò in direzione ovest. Se il cielo mi assiste. E le gambe. Le gambe sono sfinite. Non si tratta delle gambe: è il morale che è a pezzi. Quattordici giorni senza vedere niente, all’infuori di terra e cielo. Se ci fosse il mare al posto della terra, sarei un naufrago. Invece sono un prigioniero. Di chi? Non so. Perché? Qual è la mia colpa? Si tratta di un fatto lieve o di un crimine? Sono un omicida? Forse un parricida. No, mio padre è morto di pleurite molti anni fa. Anzi, è vivo. È guarito. Non perfettamente, ma parla. Ci sente. E se fosse morto nel frattempo? Non ho sue notizie da un mese. No, da sei mesi. Mia madre, allora. Chi è mia madre? Chi altro potrei aver ammazzato?

Sono in piedi, questo è un fatto. Desidero veramente stare in piedi? Un tempo non mi sarei rivolto questa domanda. Mi sarei seduto e basta. Oppure non mi avrebbe sfiorato l’idea di sedermi. Questo elucubrare, questo almanaccare non sarebbe esistito. Un fatto era un fatto: mi svegliavo, uscivo di casa, rientravo, vivevo la mia giornata. Vedevo molte persone, o poche, a seconda della fortuna. Non stavo a domandarmi in che direzione andassero le mie parole. Erano un mezzo di collegamento fra me e la società. Non erano più importanti degli sguardi, delle risa, dei gesti. Adesso sono un museo: ho bisogno di metterle in fila e passarle in rassegna giorno per giorno, così da non lasciarle cadere dalla memoria. Se tralascio una parola per qualche giorno, è finita. Non ritorna più. E dietro quella se ne andranno altre, ed altre ancora, finché ci sarà la fuga a rotta di collo: accavallandosi, nitrendo, rombando come un fiume scatenato, le parole scapperanno da me e non le potrò più riprendere. Allora sì che sarò veramente solo. Le parole sono i sostituti delle persone. Non posso farmi abbandonare anche da loro.

Devo riflettere. Escogitare qualcosa di nuovo. Non solo camminare: inventare. Le idee spingono avanti più delle gambe. Le idee applicate, ma anche le idee astratte. Lasciarsi andare alle invenzioni è come partorire cuccioli in una caverna. Perché in una caverna? Ricordarsi di trovare una risposta a questa domanda (deve entrarci il motivo che la prole partorita in una caverna è più numerosa, sebbene non sappia donde mi venga quest’idea).

Man mano che passano i giorni, ho sempre meno interesse ad arrivare. Sto benissimo qui, non mi disturba nessuno. Non sono soggetto a critiche, non devo concludere, non sono imbrigliato negli orari e nei doveri. Di padre, di marito, di uomo. Di scapolo, di figlio, di donna. Non sono una donna. Ma sono scapolo, padre? Figlio, sì. Ancora per poco. Come so che è per poco?

Vorrei essere padre. Ed anche nonno. Ma non invecchierò su questa terra. Non c’è bisogno di invecchiare per diventare nonno. Nonni si nasce. O si diventa con l’esperienza. No, non è esatto.

Quanto tempo è che non cammino? Provo a sentirmi le gambe: sono molli. Non ho fitte. Se mi alzassi, forse mi verrebbero. Anzi, ne sarei crivellato: come un mare di pagliuzze. Mi farebbero ripiombare a sedere.

L’importante è decidere di alzarmi. L’importante è decidermi. Ma prima devo mangiare.

Dove trovo da mangiare? Come ho fatto a mangiare durante tutta questa prigionia? Forse ho digiunato. Ma devo almeno aver bevuto. In genere il cibo lo portano i carcerieri. Qui non ne ho mai visti. Però tre giorni fa per poco non davo un calcio a una ciotola di vitto che mi è capitata fra i piedi. Fortunatamente l’ho vista in tempo. Chissà se l’avrebbero sostituita, altrimenti. Non credo che l’avrebbero fatto. Era un impasto lattiginoso, come la polpa di un frutto tropicale. Strano, perché il clima non è adatto. È un clima freddo, brusco, caliginoso, piagnucoloso. Interessante, a suo modo. Ma inadatto ai frutti tropicali.

Era buono? L’ho appena assaggiato. Non avevo fame, avevo mal di pancia. Ciononostante l’ho divorato. Non mi sono accorto del sapore, tanto ho mangiato in fretta. Di solito mastico a lungo. Stavolta però mi facevano male i denti. Dovrei andare dal dentista, ma trovarne uno in gamba da queste parti è difficile. Dovrei girare parecchio. Non ho tempo di girare per scappare e per cercarmi un dentista. O l’uno o l’altro. I denti possono aspettare.

Tornando al cibo, chi me l’ha porto? No, nessuno me l’ha porto. Chi me l’ha fatto trovare? È stato abile, però, a collocarlo proprio sui miei passi.

Ma perché nessuno commenta?

Quindicesimo giorno di prigionia.

Anche questo giorno comincia all’improvviso, senza che ricordi come ho trascorso la notte. Seduto, sdraiato, in piedi? Fermo, in movimento? Dormendo, pensando? Quantunque analitiche, queste domande non hanno il potere di farmi tornare la memoria. È stato sempre così, dall’inizio. Della prigionia. Anche prima. Anche prima non ricordavo come trascorressi le notti. Per lo più dormivo, suppongo. Altrimenti avrei dormito di giorno e questo non lo facevo, lo ricordo bene.

Una volta ero capace di elevarmi a pensieri eminenti, spirituali. Ora non è il caso, ho altro per la testa. Eppure, quale occasione migliore di questa? Non soffro il freddo né la fame né il sonno. L’unica cosa di cui soffro è la curiosità. Neanche questo. Mi pongo domande continuamente, ma non soffro di non saper rispondere. Cosa mi è successo? Una volta ero curioso. No, non sono mai stato curioso. Ma bisognerebbe esserlo, nelle mie condizioni. Il rimorso è un’altra cosa di cui non soffro.

Immaginerò di incontrare qualcuno, forse è l’unico modo di incontrarlo veramente. Quanto meno avrò una presenza fittizia a tenermi compagnia. Ecco che si lascia avvistare, un punto nero all’orizzonte (di notte sarebbe stato un punto bianco, ma dovrei fare un esperimento per esserne certo), sta procedendo verso di me, è qua, mi fissa senza sorpresa, un po’ infastidito (neanche le mie creature sono contente di vedermi, dovrei imporglielo ma non ne ho la forza), come ti chiami? No, non rispondere ancora, la domanda è troppo diretta, non sta bene, sei appena arrivato, riposati un po’, ti ho forse disturbato, eri con una ragazza? Ecco che ricomincio a fare domande personali. Vattene, non ho più bisogno di te. No, non andartene. Ma sì, per oggi vattene ma torna domani. Voglio stare solo. Non sopporto quell’occhio annoiato, indifferente, indolente. È andato? No, è ancora qua. Con le mani in tasca. Mi volto dall’altra parte, non ti guarderò sparire. Non voglio carpire il tuo segreto. Sei ancora qua? Allora vado a letto. Ma dov’è il letto? Mi stenderò per terra. Buio!

Sedicesimo giorno di prigionia.

Come il quattordicesimo.

21/1/1982

La Porta del Mare

La mia finestra è dietro la Porta del Mare. Cosa sia questa Porta del Mare potrei scoprirlo solo se mi decidessi a spingerla e guardare oltre. Ma prima bisognerebbe che aprissi la finestra. Ora, questo è un pensiero che neanche mi sfiora, mentre me ne sto rannicchiato nel letto e il mio sguardo torbido si posa sulle persiane, nelle notti insonni. La sagoma della Porta, color verde bottiglia, si profila netta più che di giorno; durante il giorno, invece, pur essendo i contorni della Porta appannati dal caldo, se ne distingue meglio il colore. Ma di giorno e di notte la Porta resta chiusa. Nel cuore della notte, però, mi pare a volte che si socchiuda: ciò accade quando mi sveglio trasalendo, ma a uno sguardo più attento mi devo ricredere. Non so, allora, se abbia immaginato tutto in sogno, o se il trasalimento appartenga alla veglia, e dunque la Porta si sia veramente dischiusa. Non si sente però, se non di rado, il rumoreggiare delle onde; e anche quelle rare volte non mi sembra che venga da dietro la Porta, ma anzi per lo più dalla parte opposta, senza escludere altre occasionali direzioni. Il rumore, comunque, non è mai coinciso col socchiudersi della porta.

Quando scendo nel salone a piano terra, e tutto intorno è silenzio – anche le ultime motorette hanno smesso di circolare e i clacson maleducati si sono stancati di strombazzare – apro il frigo per cercare una birra. Dopo aver bevuto apro l’uscio di casa, e non vedo nessuna porta. Né in terra né in cielo. Tanto meno davanti alla mia finestra. A volte una tettoia che si protende sulla veranda mi impedisce di spingere in alto lo sguardo; altre volte un groppo in gola mi costringe a posare sulla tavola il bicchiere appena riempito. Non mi commuovo facilmente, specie senza motivo: è probabilmente l’apprensione che mi chiude la gola.

Ma anche ora che registro questi fatti insignificanti per trarne forse delle conclusioni, vi sono dei disturbi: una zanzara mi infastidisce, la sento tra l’orecchio e il collo; con uno scarto della testa la scaccio, ma ha interrotto le mie osservazioni: questa nota stonata durerà nell’aria chissà quanto a lungo. Avverto poi leggeri brividi di freddo: ho dimenticato la maglietta in camera da letto. Il freddo non è insopportabile, è agosto, ma adesso mi scopro a fissare, completamente smarrito, un paio di zoccoli da donna sotto il divano.

La sedia che ho scelto è l’unica che scricchiola. Non è tanto per il fastidio degli schiocchi che mi decido ad aprirne un’altra, pure pieghevole ma senza voce, quanto piuttosto per amor di quiete, atterrito al pensiero di svegliare chi dorme di sopra, delle innumerevoli questioni che ne seguirebbero, della concentrazione che sarebbe ormai perduta per questa notte, e non potrei certo ricominciare domani. Queste notti in cui una specie di coraggio mi spinge ad attaccare per così dire alle spalle l’oggetto dei miei dubbi, non si ripetono di frequente. Fortuna che non si è mosso niente.

Vorrei, in certi momenti, che una musica prepotente erompesse dalla Porta del Mare, così da provare non solo a me, che ne sono naturalmente già persuaso, ma al mondo intero che tutta la musica è ispirata dal mare, in qualche modo ne trae origine, se non è il mare stesso. Questa affermazione, che oggi suona forse pazzesca ai più e si direbbe frutto di stolido sentimentalismo – su un piano strettamente scientifico, è innegabile che non esista un romorio più disordinato e privo di pause di quello marino – rappresenta la più salda delle mie teorie: eppure, neanche per me ha grande importanza. Se un giorno dovesse risultare vera, non ne gioirei. A parte la momentanea esultanza di chi, dopo essere stato per tanto tempo misconosciuto, vede trionfare le sue ragioni, un successo del genere non mi scuoterebbe nel profondo. Come non altererebbe la musica: nessun compositore sarebbe stimolato a scriverne di migliore, e anche se lo fosse non potrebbe, la qualità della musica non ha rapporto con la sua origine.

Certo, prima di cogliere un successo così vistoso e indifferente, dovrei quanto meno ottenerne un altro di interesse più circoscritto ma fondamentale per le successive ricerche: ossia dimostrare che la Porta del Mare esiste. Per tutto ciò che è visibile, tale dimostrazione dovrebbe essere superflua. Poco importa che l’apparenza dell’oggetto sia cangiante, cioè che lo si veda talvolta in un modo, talvolta in un altro: ciò si verifica in molti casi, senza che di regola nessuno si permetta di dubitare della sua esistenza e perfino dei suoi particolari. Tuttavia, per la Porta, stimo necessario un esame più accurato. Passano giorni – il massimo è stato di cinque consecutivi – senza che la Porta mi degni della sua presenza. Allora sarei quasi tentato di spalancare la finestra, ma il terrore delle conseguenze, del resto comprensibile, me ne trattiene: se fosse proprio quello il gesto che la Porta aspetta per ricomparire con un boato, sfolgorante di vendetta? Se un gorgo d’aria, stabilitosi là dove era la Porta, mi risucchiasse? Questa ipotesi non è da scartare, è anzi probabile che la Porta, nello sparire, crei mulinelli anche violenti: il suo stesso nome fa supporre che l’allontanamento della Porta implichi uno spostamento di tutto il mare. Anche se non è provato che il mare stia dietro la Porta, il pericolo non è trascurabile. Devo dunque essere molto cauto nei mie passi. La mia cautela viene accentuata da un timore reverenziale: di frequente, specie quando sto per compiere un passo falso (il solo intuito me ne avverte; le conseguenze deleterie si fanno spesso attendere per anni e talvolta non sopraggiungono mai, benché questa conclusione possa facilmente essere smentita dalla brevità della vita), mi domando: come si sarebbero comportati in questa circostanza i grandi ricercatori del passato? È alla loro esperienza che, in mancanza di un metodo, bisogna rifarsi. Certo, nessuno di loro ha fatto un’esperienza specifica in questo campo; del resto, se anche il più ottuso di loro – è solo un’ipotesi, non esiste ottusità fra quelle grandi menti – l’avesse fatta, tale esperienza sarebbe stata completa, ogni dubbio sarebbe fugato, e a me non rimarrebbe che arrampicarmi sulle poderose spalle del predecessore nella ricerca per cogliere quel frutto che solo il suo immenso pudore e disinteresse per i riconoscimenti ufficiali gli avrebbero impedito di staccare dall’albero quando era ormai a portata di mano. Si legge abitualmente negli scritti di questi grandi, scritti che sono oramai definitivi e in cui solo una parola in più, detta da par loro, basterebbe a renderli perfetti, la frase: “Abdico ai risultati della ricerca a favore dei posteri”, che testimonia la loro incomparabile umiltà. Tanto più che, anche laddove non abbiano avuto occasione di ricercare, come nel mio campo, la dovizia di informazioni utili che si traggono dalla varia e brillante gamma delle loro esperienze in campi limitrofi o anche molto distanti, oltre a essere una preziosa fonte di studio e d’incanto per i nuovi ricercatori, imprime una tale accelerazione alle loro ricerche, che queste balzano quasi da sole alle soglie della conclusione. Se nel mio caso ciò non si è ancora verificato, è solo per cattivo sfruttamento delle risorse, non per loro deficienza: che colpa ne hanno i ricercatori del passato se mi lascio intimorire dalla grande ombra che essi, pur rattrappendosi quanto è umanamente possibile nella loro infinita modestia, non possono fare a meno di spandere?

Vengono però anche momenti in cui la prudenza mi è insopportabile. Allora mi butto allo sbaraglio: esco frettolosamente di casa e rientro sbuffando, esco nuovamente per lanciare anatemi contro la Porta, dovunque essa sia, chiamo in mio soccorso la rosa dei venti perché le mie imprecazioni volino in tutte le direzioni, confluendo si abbattano sui due lati della Porta e – magari accadesse! – la sfondino, scatenando tutta la potenza d’acqua murata nello spesso strato di legno, così che quella violenta espansione la scardini.

Anche nei momenti di rabbia più soffocante, però, il solo gesto forse risolutivo è proprio quello che non riesco a compiere: spalancare la finestra. Il potere della Porta è tale che, pur maledicendola, non oso servirmi degli strumenti che la potrebbero distruggere. Tormento la maniglia, aguzzo la vista più che posso, batto la fronte sul vetro: ma sono come un cane che abbaia alle ombre, con la differenza che io non vedo neanche quelle, né le odo sghignazzare, perciò il dispetto è più forte e alla fine mi costringe a scendere le scale di corsa, risalirle a tre a tre, buttarmi bocconi sul letto e malmenare il cuscino.

7/10/1983

Una sconfitta

Preparò gli scacchi. Trattenendo il desiderio febbrile di agguantare manciate di pezzi dalla scatola per scaraventarli a casaccio sulla scacchiera, li estrasse meticolosamente dai loro alloggiamenti e li posò a uno a uno sulle rispettive caselle. Non era un’antica passione, coltivata nel tempo, che gli ingiungeva di giocare, ma un’inquietudine nuova e senza radici, la voglia di tuffarsi in un labirinto di cui non aveva le chiavi. Il lavorio mentale l’avrebbe nauseato ben presto, lo sapeva; ma era appunto questo che cercava, nausea. Fintantoché non si fosse liberato della piena, non avrebbe avuto testa per altro. Gli scacchi erano solo il più intellettuale e complicato di tutti gli sbocchi; altre volte aveva scelto le carte, la lettura, la televisione, ma stavolta gli occorreva qualcosa che stroncasse quella febbre di occupazione mentale, doveva prendersi una rivincita, ancora non gli era chiaro su chi o per che cosa, ad ogni modo doveva trionfarne, ed una vittoria a scacchi contro un avversario ignoto, per quanto scadente fosse la partita, era ciò che in quel momento agognava. Aveva imparato che, a non assecondare il suo intuito capriccioso, la conseguenza infallibile era una notte insonne. Si disponeva dunque a giocare; ma ecco che, quando tutto fu pronto, la voglia del gioco svanì all’istante. Cosa l’aveva sostituita? Perché un sostituto doveva esserci, non poteva mettersi tranquillo a dormire, era fuori discussione. Vincendo la repulsione, fece svogliatamente le prime mosse. Dovette abbandonare. Prese le carte e intavolò una finta partita. Non aveva senso, se ne rese conto dopo la prima mano. Non si concentrava neanche quel poco richiesto al suo modesto livello per aver ragione di un avversario la cui inesistenza era garanzia di condiscendenza. Quella prima mano gli era però servita per maturare le ragioni del suo scacco. Avrebbe voluto che la sua intelligenza partorisse in una sola volta il miglior prodotto di cui era capace. Senza travaglio, senza ricerche tormentose e sfibranti. Per opporlo ai suoi avversari e schiacciare una volta per tutte quelli che non erano all’altezza di tale concezione, riconoscendo al tempo stesso, così da essere sempre pronto a schivarli, coloro che le erano superiori. Ma un tale prodotto non c’era modo di ottenerlo quella sera stessa né probabilmente in seguito. Si poteva solo sperare di elaborare, dopo una faticosa gestazione forse di anni, un prodotto parziale, grezzo, superabile solo con altri sforzi ancor più laboriosi e lunghi, e anche questo non sarebbe stato tale da dividere gli avversari in due categorie nette, fastidiose migrazioni di nemici dubbiosi potevano sempre verificarsi da una classe all’altra, e poi i tracotanti non avrebbero mai riconosciuto il valore del suo prodotto, altri avversari si sarebbero potuti rafforzare nel tempo così da varcare a buon diritto il confine; lui stesso avrebbe garantito questo diritto, la lealtà non gli difettava, a differenza della maggior parte dei suoi oppositori; questo naturalmente lo macerava ma non poteva cambiare la sua indole leale.

Cosa poteva dunque escogitare per dormire pacificamente quella sera? Ma non era più questione di una sera, altre volte si era stordito con l’alcool, ciò risaliva a parecchi anni addietro ma un episodio in più non gli avrebbe certo guastato il fegato; ora però che aveva sviscerato il problema, non poteva più baloccarsi con false prospettive: le scaramucce fittizie non gli sarebbero più state d’aiuto; ne avrebbe combattute altre, ormai gli erano entrate nel sangue, ma il conforto transitorio che ne traeva sarebbe risultato sempre più evanescente; completare la rivincita avrebbe richiesto sforzi sempre più impegnativi ed eroso a poco a poco tutta la giornata. Che fine avrebbe fatto allora il suo tempo? Gli pareva già di vedere gli avversari ghignargli in faccia, facendo capolino da un oblò.

21/9/1983

Inseguimento

Il cetaceo lattiginoso avanza lentamente lungo la linea dell’orizzonte sbuffando acqua. Lo vedo dal molo, dove mi credo al sicuro. Si gira a poco a poco. Mi fronteggia. È fermo. Sembra fissarmi, studiarmi. Ha forse formulato intenzioni nei miei riguardi: si avvia verso di me. Fende l’acqua con sicurezza, si avvicina in fretta. Balzo sulla macchina e parto. Il cetaceo dirotta, evita il molo e punta sull’autostrada; supera di slancio la massicciata che la separa dall’oceano e si abbatte sordamente sull’asfalto.

Trasformatosi in fuoriserie mi insegue sull’autostrada. È molto più veloce, solo la legge mentale che prolunga gli incubi gli impedisce di raggiungermi e sopraffarmi in un attimo. Nella mia corsa pazza imbocco una galleria. Una fila di cabine di legno a sinistra forma una parete ininterrotta, se non è la velocità a ingannarmi. La galleria è percorsa da rotaie. Decelero e mi porto fuori dai binari. Conto sull’imperizia del mio inseguitore, che infatti, non riuscendo a controllare la macchina, slitta e va a schiantarsi sulle cabine. Dall’interno di una di esse, debolmente rischiarato da una lampadina, due controllori si affacciano in tempo per vedere il corpo del vecchio canuto alla guida premere lo sportello che si va aprendo e afflosciarsi per terra. Provo vergogna e rimorso.

29/3/1984

Claudia

Andai a trovare Claudia nel suo appartamento nel quartiere ovest. Era arredato con ragionevole stravaganza. Claudia è una donna niente affatto insulsa, affabile come tutte le donne intelligenti. Con lei non devo esercitarmi nell’arte di circuire con simpatia. Posso riposarmi, fare il taciturno, come la maggior parte delle persone non sollecitate. Lei siede sul divano, non mi offre da bere, mi lascia randagio per casa, non insiste e non propone. Tocco un ninnolo, lo rigiro, lo poso. Fatto inconsueto per me, modifico la mia velocità nel parlare: ho meno scatti, meno pause. Posso blandire le parole senza incepparmi o addormentarmi. C’è fra noi una levità aurea. Una volta uno di noi ha detto all’altro che siamo intenti a indagare nel nostro io tuffato in quello altrui. Ciò vale, abbiamo scoperto, sia nei riguardi degli altri che scambievolmente. È bello dire “noi due” pur senza essere legati. È bello non essere inventati facendo finta di inventarci. Usciamo sotto gli alberi. Non ci diamo la mano, non andiamo abbracciati, ci sfioriamo. Quando lei bacia me, a volte anch’io la bacio. C’è modo pure di punzecchiarci: è come un pizzicato in una partitura. Non sappiamo cosa siano i regali. Non ce ne siamo mai fatti. Una volta le ho chiesto: “cos’è un regalo?”. Mi ha risposto: “Boh, e tu?”. “Io neppure”. L’anacoluto dev’essere nato fra due persone che si amano e si imitano. Forse non ci amiamo; non è che abbiamo avuto paura di sfiorare l’argomento, è che… come parlarne senza fare una dissertazione? Qualcuno, anche uno di noi, potrebbe dire che siamo liberi come uccelli ma più incoscienti.

Non passò molto tempo che intristimmo. Non restammo amici, non lo eravamo mai stati. Eravamo unici, sosia l’uno dell’altra. Non c’era amicizia ma identità. Sospinti diversamente alla deriva dal mare di magnetismi che è il tempo, ci vedemmo dissimilmente sfaccettati. Non eravamo identici, non potevamo più coabitare i giorni. Divenimmo amanti, non mi viene altra parola. Ci allacciava quella voluttà che nasce dell’infelicità.

La membrana

Vivo come gli altri, ma percepisco il mondo attraverso una membrana ovale trasparente che mi ingloba. Questa non mutila la mia percezione né attenua la mia socialità: è solo un involucro supplementare di cui gli altri non mostrano di avvedersi. La sua consistenza e il suo colore sono labili. È di volta in volta opalescente, vitrea, iridata, traslucida. Mi protegge dall’animosità altrui. Nei giorni umidi si permea di vapore acqueo e mi imperla di goccioline. Per non sudare sono avaro di gesti.

Dormo su costoni di roccia con la mia camicia membranosa isolante. Le unghie non la bucano: una pellicola imperforabile avviluppa anch’esse. Quando ascolto musica vibra come un timpano. Pulisce il suono ed amplifica l’emozione.

Julia

Julia è una donna sontuosa: oltre che opulenta di forme ed elegante fino allo sfarzo, ha pure una dovizia di risorse femminili, una calda gamma di inflessioni nella voce, uno sguardo mutevole e trascolorante. Nel parlare disorienta: credi che il suo interesse si appunti su un argomento, sul quale è deliziata di sentirti discorrere: ed ecco che con un’osservazione marginale sterza su un tema del tutto estraneo, seguitando senza perdere il filo, come se di quello appunto si stesse parlando da un’ora. È impossibile non mostrarsi esterrefatti, non farsi paralizzare da una sua rapida occhiata di meraviglia per il tuo scarso intuito.

Telecronaca

Vediamo ora alcune immagini della guerra nucleare in atto.

Sulla sinistra del teleschermo la cappa di fumo che si srotola denota che l’epicentro dell’esplosione è ad alcuni chilometri ad ovest. Notate ora come i palazzi si sgretolino prima che il fumo li raggiunga. Ecco, ora c’è una sequenza di sterminio: il nostro operatore ha filmato il corteo nell’attimo in cui viene annientato. Potete constatare dalle immagini… fra poco, quando il fumo si sarà dissolto… potete constatare, dicevo, come i corpi si siano disintegrati, a parte qualche brandello irriconoscibile che volteggia in aria come cenere. È difficile distinguere il materiale organico da quello inorganico, tutto ha lo stesso aspetto… Ora una panoramica della città devastata a sette minuti dall’esplosione… l’area urbana è polverizzata, le campagne bruciano… no, mi correggo, è il mare che brucia. L’appiattimento non ci ha consentito di discernere subito… i riflessi guizzanti stanno però a indicare che si tratta della distesa marina… ricordiamo l’aggettivo “equoreo” mutuato dalla tradizione letteraria… mai come adesso ci sembra adattarsi a questo focolaio scalpitante…

C’è ora una ripresa dalla stratosfera: visibilissimo il cappello del fungo che si allarga a vista d’occhio; notate anche gli altri funghi nascenti, in diversi punti del continente… come si espandono rapidamente, fino ad assumere le dimensioni del maggiore… sembrano paracadute che si vadano sciorinando quasi istantaneamente… dobbiamo pensare che all’altro capo, in corrispondenza, per così dire, delle cinghie, non c’è un paracadutista ma un’intera città… l’atterraggio non è stato molto morbido, ci si perdoni il paragone forse un po’ stiracchiato, del resto l’emozione di queste immagini che scorrono sullo schermo è tale, che a volte il commento non riesce ad adeguarsi ai fatti; ce ne scusiamo coi telespettatori.

Passiamo ora a inquadrare il Quartier Generale, dove il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale di Corpo d’Armata Bufalini, sta impartendo alcuni ordini che speriamo vadano ad effetto prima che il Quartier Generale fonda. Il Generale sta ordinando l’arresto dei maremoti, che recherebbero ulteriori danni all’ambiente, come avete visto già seriamente compromesso… il Generale Bufalini dispone ora misure intese a salvaguardare le salme da successivi bombardamenti o attacchi; appare opportuno, in effetti, preservare alcuni esemplari, seppure estinti, della specie umana, affinché le specie superstiti possano, dallo studio dei cadaveri, ricostruire o riesumare – a seconda del grado di perfezionamento cui sarà pervenuta la loro tecnologia – il genere umano, o almeno qualche razza locale.

Il popolo delle frange

Attraversammo l’altopiano di notte. Nessuno ci vide, ma il nostro scopo non era tanto di passare inosservati quanto di non vedere. La guida indigena si sbracciava a spiegarci che non solo non dovevamo staccarci dal gruppo per curiosare nei paraggi, ma era necessario che tirassimo dritti senza neanche voltare la testa. C’erano occhi in agguato che non aspettavano altro che di essere fissati per piombarci addosso. La maggior parte di noi non credeva realmente a queste che i più baldanzosi chiamavano sciocche fole tribali; eppure proprio quei gradassi erano i primi a rigar dritto e a correggere anzi negli altri – raddrizzando una testa che scartava, coprendo un paio d’occhi che si allargavano intorno con cupidigia – ogni indizio che lasciasse presagire intenzioni proibite.

Io sono, si può dire, un veterano di questi viaggi esplorativi. Senza sopravvalutare i pericoli che le guide paventano, non faccio esibizione di spavalderia e impiego piuttosto le forze in una sorveglianza per quanto possibile continua, seppure non esasperata. I novizi si fanno invece riconoscere per quelle loro esagitate proclamazioni di eroismo che non riescono però a vincere la riluttanza a discostarsi anche di poco dalle istruzioni ricevute. Questo snervante conflitto corrompe a volte il loro equilibrio mentale: si vedono così uomini che alla loro prima escursione abbracciano la religione locale o si spingono fino a credersi essi stessi totem. Talvolta, negli stadi iniziali, il loro incoerente stakanovismo del coraggio li rende così invisi al resto della comitiva, che i compagni accolgono poi con malvagia soddisfazione il loro tracollo, di cui approfittano per abbandonarli spietatamente nel luogo più selvaggio. Chi ha esperienza di conflitti sociali in questi improvvisati gruppi di ventura si guarderà bene dall’intervenire a favore del condannato, così come in precedenza non avrà potuto che deplorare in cuor suo il sicuro avvio di quello ad una fine infelice.

Il buio si era fatto insopportabile; le nostre sagome vi annegavano, solo i nervi avidi avvertivano ognuno della presenza altrui, impedendo che ci scontrassimo di continuo. Cavalcammo ancora per qualche ora; poi col primo chiarore ci accampammo in circolo, troppo stanchi per curarci più di qualsiasi divieto.

Il curioso di quei posti era che schiariva solo di sopra e davanti a noi, mentre le fasce circostanti dell’altopiano, come pure la zona che ci eravamo lasciati dietro, rimanevano la buio. Poi accadde quel fatto. Dall’oscurità cominciarono a staccarsi delle figure dal sembiante umano ma completamente nere, come ritagliate nel buio. Si avvicinarono e sedettero fra noi. Erano forme di uomini, donne, bambini.

Che volete?” chiesi a uno di loro che indugiava presso di me.

Solo farvi compagnia mentre sostate. Non siamo ostili, non abbiamo mai recato offesa a nessuno”.

Intanto muoveva la testa in giro e osservava i miei compagni.

Di che paese sei?” mi chiese un altro di loro dalla parte opposta del cerchio.

Sono europeo. Conosci l’Europa?”

No. Voi la conoscete?” domandò ai suoi. Fecero cenno di no.

Non siamo mai usciti da questa regione” spiegò quello che mi stava accanto. “Non riusciamo a emigrare. Il solo modo di andarcene sarebbe di fissarci nella memoria dei viaggiatori che ci hanno conosciuti, per essere portati via da loro. Ma poco più in là inizia la strada per discendere dall’altopiano: è una china disuguale e brulla; al primo sobbalzo della cavalcatura ci stacchiamo dalla mente del viaggiatore e cadiamo. I più giovani e creduloni tentano ancora, ma tutti, finora, hanno fatto ritorno”.

Chi siete? La vostra stirpe esiste da molto?”.

Dalla notte dei tempi. Ci animiamo solo nella breve ora che precede il mattino. Apparteniamo a queste frange di notte che spariscono per ultime. Per questo ci chiamiamo il popolo delle frange”.

Frattanto avevo notato che i compagni di colui che mi parlava si mescolavano con disinvoltura alla comitiva, bevendo il nostro caffè, chinandosi insieme a noi sulle carte geografiche, soffiando sul fuoco che avevamo acceso per scaldarci. Tutti però erano taciturni: i nuovi venuti avevano scambiato parola solo con me, gli altri della compagnia li tolleravano ma non parevano in vena di chiacchiere.

Udimmo un urlo: una sagoma nera di bambino era montata sul carro dove una donna riposava, spaventandola, mentre altri due si erano arrampicati sulle ruote e si tenevano aggrappati al telone ricurvo che ricopriva il carro. Subito due uomini accorsero a scacciarli. I neri non intervennero. Probabilmente erano abituati a inconvenienti del genere. In seguito al malumore che derivò dall’episodio, i neri si trassero in disparte, seguitando a guardarci con apparente impaccio e umiliazione. I nostri presero ad arrotolare le carte e a smontare l’accampamento. Poiché al centro si andava facendo giorno pieno, il popolo delle frange rientrò, una sagoma per volta, nella zona buia che illanguidiva.

Partimmo. Per qualche tempo restai soprappensiero, assorto nel ricordo di quell’incontro. Quando mi riscossi, eravamo in pianura: l’altopiano non si vedeva più, dovevamo averlo lasciato da un pezzo. Mi sorpresi a constatare che la memoria di quell’episodio non si era ancora cancellata in me, nonostante ciò che aveva detto quell’uomo.

Cominciai a notare che gli altri non mi rivolgevano più la parola. Con l’andar dei giorni sembrava che non si accorgessero neanche più della mia esistenza. Forse per via del loro deliberato ignorarmi, trascurai da allora di osservare quei comportamenti che fanno di un individuo un membro rispettato di un consesso sociale. Andai assumendo abitudini stravaganti: non mangiavo più con gli altri, non mi lavavo insieme a loro, leggevo mentre essi conversavano, non contribuivo alle faccende quotidiane, mi alzavo e coricavo in ore diverse dalle loro.

Una mattina che mi ero svegliato assai più tardi del solito, non vidi più nessuno intorno a me. Aspettai per due settimane che qualcuno tornasse a prendermi, quantunque sapessi fin dal principio che mi avevano abbandonato. Quando il termine che mi ero assegnato fu scaduto, non mi rimase che far ritorno presso il popolo delle frange.

1/3/1984