Traffico

La chiazza luminosa del traffico ondula simile all’acqua mossa in circolo in un bicchiere visto al rallentatore. Il moto delle macchine è in apparenza calmo ma, se fosse dato vederlo al naturale, vorticoso: filano a centinaia di chilometri all’ora su una pista ripida, mantenendo sempre la stessa distanza per mancanza di spazio. I quattro passeggeri di ghiaccio di ogni automobile assistono al dipanarsi imprevedibile della strada, non vedendo in realtà altro che la vettura davanti e sue quattro nuche di ghiaccio.

Unico elemento acustico, il rombo dei motori che cuce un’insana trina nera. Anche il cielo è fatto a scaglie di rombo.

La situazione ora è più viscosa: la strada si è fermata sotto le ruote, le macchine beccheggiano, il loro avanzamento è finito, il moto si propaga in astratto fra di esse ma non imprime più alcun impulso in avanti.

4.1.1983

Dieci uomini

Dieci uomini andavano a ritroso con lo stesso passo. Retrocedevano verso i confini della città, lentamente ma con una costanza che denotava il loro affiatamento. Altri dieci li fronteggiavano avanzando. Gli altri dieci erano quasi sincronizzati coi primi, che non cambiavano passo, pur perdendo lentamente terreno sul secondo schieramento, che veniva avanti con impercettibile impazienza e ormai già toccava le loro fronti, che erano molto sottili e si sarebbero frantumate al primo urto.

Il muro della città si avvicina lentamente, con sforzo, come una bestia carica della soma. Procede inugualmente e a scossoni, colpendo i passanti fermi di spalle nella strada, che non si sono accorti del suo avanzamento. Già è in vista dei venti uomini contrapposti, e non si sa più prevedere se i dieci uomini che retrocedono saranno abbattuti dagli altri dieci o schiacciati dal muro, che è di lunghezza doppia rispetto alla schiera per poterla racchiudere come una coperta e finalmente stritolare.

2.1.1983

Lo studioso

Dune, dune, dune. Nessuno spettacolo è pari a questo. Non me ne sazierò mai. Da quarant’anni mi sono attestato nel deserto allo scopo di studiarle. Lo spettacolo è inesauribile: arrivano ogni giorno a cavalloni, spingono i loro musi fino al mio quartier generale, fanno ressa intorno a questo disseccato ometto estasiato, attendono frementi una carezza sulla testa, a volte basta loro un sorriso o un ammiccamento, dopodiché voltano la fronte e tornano a ruzzare nella vastità del deserto. Talvolta qualcuna si offre di prendermi a cavalcioni e mi trascina in una galoppata arroventata. Dopo migliaia di chilometri a dorso di duna vengo deposto in un’oasi dove bevo a sazietà e mi riposo finché lei non viene a riprendermi, di notte. La cavalcata di ritorno sotto la luna è anche più suggestiva: il cristallo di duna si trasforma in vera sabbia fosforica, ondine di latte vengono a lambirmi i piedi, il mio delfino di sabbia fende ratto e silenzioso il velo increspato in cui si muove. All’arrivo la corsa si smorza da sé, la duna appiattisce la fronte per lasciarmi scivolare mollemente nel giaciglio, nel quale mi addormento subito, a ridosso di un bastione a strapiombo.

Mi sveglio col sole già alto. Un cammelliere arranca verso di me, trascinando per la cavezza le sue bestie.

25.12.1982

Durante una campagna di guerra

Da qualche tempo il generale non è stimato come prima dai suoi aiutanti: invece di studiare i piani delle battaglie, se ne sta nella tenda in compagnia del suo cane vecchio e spelacchiato e fa solitari con le carte. Non si dedica ad altro, sebbene il rimorso non lo abbandoni mai; per non leggere nella faccia dei suoi più fidi assistenti lo scoramento imbronciato, che ormai si sta tramutando in odio velenoso e sobillatore, proibisce a chiunque di entrare nella tenda: se un inserviente si azzarda a sollevarne un lembo, sia pure per portargli il vassoio del pranzo, ringhia con tutta la sua vecchiaia minacciosa e gli occhi gli si fanno di brace. L’inserviente retrocede, dolorosamente colpito da quella trasformazione, e più d’una volta è inciampato cadendo supino e travolgendo il vassoio, e, sebbene la caduta in sé non fosse grave, non si è rialzato, preferendo lasciarsi morire di crepacuore. Neppure le notizie delle battaglie perdute o vinte – ma, da quando si è fissato coi solitari, naturalmente il suo esercito non fa che perdere – possono essergli recate di persona: vengono infilate – non dietro un ordine che egli non si cura di dare ma in seguito all’interpretazione, del resto esatta, dei suoi voleri più recenti – nel bastone centrale della sua tenda, opportunamente scanalato all’interno da un fabbro talmente bravo che è riuscito a non fare, durante l’operazione, il minimo rumore, per non distrarre il generale che forse proprio in quel momento giungeva a un passo cruciale del solitario. Tutto inutile: da giorni, forse da settimane, il generale lascia i messaggi accumularsi nel bastone, e non si capisce come faccia a privarsi del cibo e del sonno pur di spuntarla sui solitari.

Questo contegno del generale non si può più nascondere ormai neanche alla truppa. Da un paio di giorni i soldati brontolano, fra le tre e le quattro del pomeriggio, e i più scalmanati tra di loro mancano di rispetto ad alta voce al generale. Non si può, in verità, dar torto a molti di essi, i quali, consci di cavarsela meglio del generale nell’arte del solitario, e credendo nella loro rozza ignoranza che quest’arte spalanchi le porte delle vittorie belliche, si chiedono come mai il generale non venga esautorato e il comando della campagna conferito a loro.

(dicembre 1982)

Riflessioni sul Covid-19

Nel ripercorrere la storia del Covid-19, salta agli occhi una cosa: la risposta più efficace a una situazione d’emergenza l’ha data una dittatura. Sotto una dittatura il governo non deve preoccuparsi del consenso popolare, dunque può prendere le decisioni più brutali senza incontrare opposizione.

A prescindere dal fatto che il virus sia nato o no in laboratorio, finché la sua circolazione si è svolta in un ambito limitato, il governo cinese ha messo a tacere la cosa mentre studiava le iniziative da prendere. Ma quando l’epidemia ha assunto proporzioni tali da non poter più essere nascosta, è intervenuto con estrema decisione e brutalità, isolando una città di 12 milioni di abitanti come Wuhan. Una città come quella non la si isola con la persuasione: hanno schierato l’esercito con l’ordine di sparare.

Parallelamente hanno proceduto a disinfestazioni massicce con autocisterne che sparavano disinfettante per le strade, mentre gli abitanti se ne stavano tappati in casa. Non si sono limitati a campagne televisive, multe o gride manzoniane. Chi sgarrava veniva fatto fuori.

Tutto ciò è impensabile in un qualunque Stato occidentale. Però ha funzionato. Non credo minimamente alle cifre di 80.000 contagiati e 3.000 morti. Probabilmente vanno moltiplicate per 10 o forse più. Sta di fatto che l’epidemia è stata contenuta, altrimenti non ci avrebbero mandato medici e mascherine e non avrebbero permesso alla popolazione di riaffacciarsi fuori casa.

Come si è visto, nel resto del mondo il virus è arrivato ma non è stato contrastato con la stessa efficacia: a tutt’oggi è in espansione.

Ora, supponiamo che le misure prese in occidente siano talmente deboli da non impedire al morbo di svilupparsi in tutta la sua virulenza e terminare la sua corsa lasciandosi dietro milioni di morti (per non parlare delle conseguenze devastanti sull’economia).

A quel punto sarebbe lecito aspettarsi un interrogativo, già proposto in passato sotto altra forma. L’interrogativo è se sia meglio vivere sotto una dittatura, attrezzata per intervenire energicamente nelle emergenze più gravi, o in un regime democratico, dove siamo tutti più liberi ma che, di fronte alla necessità di prendere da un giorno all’altro decisioni drastiche, non abbia il permesso di farlo.

Nella seconda metà del secolo scorso un dubbio del genere se lo posero coloro che andavano sotto il nome di “pacifisti”. Nel periodo di massimo sviluppo degli armamenti atomici, di fronte al pericolo che una guerra nucleare sterminasse l’umanità, i pacifisti chiedevano il disarmo anche unilaterale. Dal momento che non potevano chiederlo all’Unione Sovietica, che li avrebbe seppelliti di risate, lo chiesero agli Stati Uniti. Ovviamente il disarmo unilaterale di questi ultimi avrebbe comportato la prevalenza dei russi e l’estensione del loro dominio dall’Europa dell’Est a tutto il mondo. Ma i pacifisti preferivano questa eventualità a quella della catastrofe nucleare. Per riassumere la loro posizione in una frase da scandire nei cortei, coniarono lo slogan”better red than dead”.

Curiosamente questo slogan si adatterebbe benissimo alla nostra situazione: se una dittatura come quella comunista cinese è capace di salvare il suo popolo dall’estinzione e le deboli democrazie occidentali non lo sono, allora “meglio rossi che morti”.

È un ragionamento logico. Tuttavia trascura un elemento importante: il caso. Nel valutare i fatti importanti, spesso tendiamo a sottovalutare il ruolo del caso, l’influenza che eventi casuali anche di modesta portata hanno nell’imprimere una svolta al corso degli eventi (1).

Nell’esempio cinese, dobbiamo fare una riflessione. Il governo non è intervenuto subito. Ha attraversato una fase di incertezza sul da farsi, durante la quale il virus si è propagato anche fuori della Cina, senza che se ne sapesse granché. Quando ha capito la gravità della cosa, e soprattutto il pericolo dell’inerzia, il governo cinese ha affondato la lama e ha preso le misure necessarie con tutta la brutalità che la situazione richiedeva. Ma che cosa sarebbe accaduto se si fosse deciso a intervenire anche solo qualche giorno dopo? Probabilmente avremmo assistito alla decimazione della popolazione cinese.

Il caso ha influito molto sull’esito della vicenda. Se fosse accaduto il peggio, l’interrogativo se sia meglio una dittatura che salva il suo popolo, o una democrazia che non sa impedirne lo sterminio, non si porrebbe.

Per tornare all’esempio dei pacifisti, questi ultimi non hanno minimamente preso in considerazione la possibilità che esistessero alternative al loro secco dilemma (un dilemma, per definizione, ha due corni). Il caso ha voluto che due fatti imprimessero una svolta imprevista al corso degli eventi: il primo, che possiamo ancora ricondurre all’uso della ragione umana, è stato il negoziato sulla riduzione bilaterale degli armamenti, che ha gradualmente ridotto, seppur non eliminato, il pericolo di un conflitto nucleare. Il secondo, largamente imprevisto, è stato lo sgretolamento dell’impero sovietico, sotto il peso di una crisi economica non più sostenibile.

Gli esempi russo e cinese dimostrano che gli uomini non hanno il controllo assoluto dei loro destini. Il caso ne è il più delle volte l’arbitro insindacabile. Ciò non significa ovviamente che le decisioni umane siano irrilevanti, ma che il dibattito su quale sia il migliore assetto di governo non può esaurirsi nel dedurre conclusioni automatiche da eventi il cui corso non dipende, se non in minima parte, dalle teorie cui diamo credito.

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NOTE

(1) Oggi si è sviluppato un ampio dibattito teorico sulla ”teoria del caos”. Se ne trova menzione perfino in un film, “Jurassic Park”, per bocca dello scienziato impersonato da Jeff Goldblum. Se non sbaglio, lui fa l’esempio di una goccia d’acqua che scivola su una mano: la direzione che prende è influenzata da tanti fattori, praticamente impossibili da calcolare, che si può sinteticamente dire che sia casuale. Un celeberrimo esempio di questa teoria è il battito d’ali di una farfalla in Amazzonia che provoca un ciclone all’altro capo del mondo.

In epoca moderna vorrei segnalare uno scienziato, premio Nobel per la Medicina nel 1965, Jacques Monod, che si è occupato in modo molto personale della questione nel suo libro “Il caso e la necessità”.

Gli antichi pagani erano ben consapevoli di quanto i nostri destini fossero diretti da forze non controllabili dall’uomo, cui davano il nome di “Fato”.

Il dibattito politico ovviamente banalizza la questione, piegando il ruolo del caso alle opportunità di ciascuna parte, per sminuire le proprie responsabilità o accentuare quelle dell’avversario.

Partita

L’aereo si librava ad alta quota con un tenue rollio. Quei passeggeri che non erano afflitti da un incipiente mal d’aria, si baloccavano coi pensieri in trasognata solitudine.

In un angolo tra la prima classe e la turistica, il comandante eseguiva la seconda Suite per violoncello solo di Bach. Il secondo pilota, ritto accanto a lui, gli voltava le pagine dello spartito.

Federico era il solo passeggero il cui comportamento denotasse una superstiziosa ed avventata sfiducia. Si muoveva sul sedile, smaniava, si torceva le mani. Le hostess si soffermavano accanto a lui ad ogni passaggio nel corridoio: chi lo baciava, chi gli arruffava i capelli, chi lo accarezzava, chi gli prendeva la mano e se la posava sulla guancia. Nonostante le loro cure materne, Federico era sempre più inquieto.

Chi pilota l’aereo?”, chiese con voce stridula e strangolata ad una hostess bionda, afferrandole il polso mentre a passo svelto stava oltrepassando il suo posto, non senza avergli largito un caldo sorriso. L’hostess gli si sedette in grembo, premendo la testa del ragazzo sulla sua fragrante camicetta di lino bianco. Federico si confuse, la gota e l’orecchio incollati al ben seno florido della donna, di cui percepiva la regola profonda del respiro.

Scioccone”, disse lei. “Il pilota è abile e ben addestrato, di saldi principi morali ed ottima famiglia: gli è stato inculcato il rispetto del prossimo e dell’incolumità dei passeggeri, l’amore per la natura e la vita, il desiderio di passeggiare nei boschi e infine la passione per la musica. Mai e poi mai permetterebbe che l’aereo precipitasse; anzi, la più lieve sbandata lo rattrista. L’ho visto coi miei occhi flagellarsi per minimi errori di manovra, di cui nessuno, neanche il secondo pilota, si era accorto. A volte, benché nulla abbia commesso, si punisce ad espiazione degli errori futuri”.

Mentre l’hostess parlava, le vibrazioni del suo petto si trasmettevano alla guancia ardente di Federico.

Non molto rassicurato da quel panegirico, Federico sentiva il cuore battergli forte, non solo per le parole della donna. Il piacere che in altri frangenti avrebbe gustato appieno e con perfetta soddisfazione, gli veniva sciupato dal fastidioso presagio di non poterne godere a lungo. Tutti i piaceri, ci insegna il filosofo, sono caduchi e per lo più di breve durata; ma quelli che si provano a bordo di un aereo che secondo una ragionevole previsione sta per sfracellarsi, ancorché intensi, sono forse un po’ troppo effimeri.

C’era poi la questione dello spago. La hostess si accalorava a spiegargli che l’aereo non poteva precipitare perché era appeso a uno spago molto robusto. Federico la guardava con gli occhi fuori dalle orbite. Benché la sua conoscenza dei velivoli non fosse profonda né le sue cognizioni di aerodinamica estese, era propenso a non crederle. Nessun ragazzo intelligente e con ottimi voti sulla pagella l’avrebbe fatto. Era timido ma non sciocco. E le sue pagelle erano lodevoli. Perciò non prestò fede alla storia dello spago finché non lo vide, riflesso nei finestrini di un aereo che per qualche minuto viaggiò affiancato al suo. Federico non sapeva che gli aerei si possono trovare occasionalmente appaiati come treni. I passeggeri dell’altro aereo si sbracciavano in saluti. Una ragazza gli mandò un bacio, gli parve. Durante un colpo d’ala dell’aereo a fianco, i finestrini di questo riflessero la parte superiore della carlinga. Fu allora che vide lo spago. Era attaccato al centro della carlinga, a poco più di un terzo dal muso dell’aereo. Federico si voltò verso la hostess, e la sua fisionomia esterrefatta si alterò dal dispetto, alla vista del risolino sardonico cui erano atteggiate le labbra della donna. Non si parlarono più fino all’atterraggio a Katmandu.

Era venuto in Nepal a visitare un monastero buddista. Un vento tagliente lo sferzò sulla scaletta dell’aereo. Si rattrappì nel cappotto e discese i gradini della scaletta. Prima di entrare nella sala d’aspetto si volse indietro: l’hostess bionda, in piedi vicino al comandante, gli indirizzò un fuggevole saluto con la mano. Nell’altra reggeva la custodia del violoncello. Il comandante, impettito e sull’attenti (quantunque sul piazzale dell’aeroporto non ci fosse anima viva, oltre a loro due), aveva riacquistato un aspetto robusto e giovanile, notò sorpreso Federico, che conservava di lui l’immagine di un fragile vecchio canuto chino sul violoncello. Adesso aveva tutti i capelli neri e portava il cappotto sotto il braccio, con quel freddo!

Nella sala d’aspetto, Federico si accorse di essere solo. Ripreso il bagaglio, uscì sulla piazza antistante.

Dirimpetto a lui si stagliava un grattacielo di vetro verde la cui base era nascosta da una fitta vegetazione. L’edificio sembrava spuntare dal suolo, come un albero cresciuto più degli altri. Una mezza dozzina di bambini giocava con cerchi e mazze di legno a pochi passi da lui. Non vedendo in giro nessun altro, Federico si avvicinò alla banda e chiese a quello di loro che sembrava il più grande: “Qual è la strada per il monastero?”, incurante del fatto che molto probabilmente i bambini non capivano la sua lingua. L’interpellato alzò gli occhi un momento, poi li riabbassò sul gioco. Il più piccolo, invece, un monello non maggiore di tre anni, gli additò muto il portone del grattacielo. Federico vi si diresse con i bagagli in mano. Era certo che i ragazzi non avessero capito la domanda, ma gli bastò un attimo di riflessione per convincersi che la sola cosa da farsi era entrare nel grattacielo: era l’unico posto là intorno dove gli avrebbero potuto dare ragguagli.

Le porte comandate da una cellula fotoelettrica si spalancarono dinanzi a lui. Si fermò interdetto nell’ampio atrio, non vedendo nessuno. Subito però le porte di un ascensore si aprirono: ne uscì un uomo in divisa gallonata, che gli si affrettò incontro.

Scusi”, chiese Federico, “sa dirmi dov’è il monastero buddista?”

Salga al sedicesimo piano” rispose nella sua lingua quello che doveva essere un usciere.

Appena messo piede sul sedicesimo, una vocina lo chiamò dall’interno di una stanza: “Venga, venga”.

Un po’ sconcertato, non tanto dal vedersi aspettato (era evidente che l’usciere gallonato li aveva preavvisati), quanto dal constatare che tutti, in quella remota contrada straniera, parlavano la sua lingua, il ragazzo si avvicinò alla porta dalla quale gli pareva provenisse la voce; su una targhetta a fianco della porta lesse: “Ufficio Informazioni e Solidarietà”. Sospinse il vetusto uscio di ciliegio e un vegliardo lo squadrò con gli occhi arrossati; al termine dell’esame gli chiese con garbo: “Vuole ancora andare al ministero?”.

Al monastero” corresse Federico. Il vecchio aveva certamente frainteso la telefonata. Forse era un po’ sordo.

Ah”, soggiunse il vecchio, e la faccia frastagliata di rughe gli si illuminò. “Proposito lodevole. Ma torno a chiederle: vuole ancora andarci?”.

Certo che voglio” rispose Federico.

Sa, molti nel salire cambiano idea. Hanno tempo di riflettere” ammiccò l’altro.

Riflettere su cosa? Che c’è di strano nel visitare un monastero?”.

Quarantottesimo piano, dalle Guide” disse il vecchio indicando il soffitto, invece di rispondere.

Federico uscì perplesso e prenotò l’ascensore.

Lo accolse al 48° una signora di buone maniere che si sdilinquì in smancerie, ringraziandolo più e più volte per l’onore, felicitandosi che un così bel giovane manifestasse propositi così austeri per la sua età, alla quale di solito non si pensava che a spassarsela, ecc.

Federico cominciava a seccarsi.

Dunque lei è la Guida?” la interruppe.

La signora si arrestò a bocca aperta.

Naturalmente” rispose riprendendosi subito. “Ma, ragazzo mio, non posso illuminarla se lei prima non acconsente…”

Illuminarmi? Chi vuol essere illuminato? Dubito perfino di aver bisogno di una guida. Mi basta che qualcuno si decida a indicarmi la strada”.

Non ha che da salire al 96° piano”.

Che?”

Salga al…”

Cos’altro c’è al 96° piano?”

Una rappresentanza del monastero. Le stavo dicendo, è di importanza eminente che lei accondiscenda ad avere un incontro preparatorio con la rappresentanza. Molte virtù del monastero le sfuggirebbero se lei vi irrompesse come un qualsiasi turista frettoloso. I monaci sapranno aprirle la mente; quando sentenzieranno che è pronto, potrà scendere da me”.

Federico era frastornato. “Ma mi assicura… che non dovrò salire oltre il 96°?”.

Certo che no. A meno che…”.

A meno che?”.

Basta, glielo diranno i monaci. Tutto ciò che deve fare è pendere dalle loro labbra”.

Federico entrò nell’ascensore rimuginando il suo malumore. Al 96° le porte scorrevoli si aprirono davanti a un portone di rovere, sul quale spiccavano due pesantissimi antiquati battenti in ferro. A due mani il ragazzo ne sollevò uno e lo lasciò ricadere. Al rintocco seguì un’eco vibrante e profonda che si disperse all’interno. Un monaco aprì.

Venga, prezioso pellegrino”.

Anche quell’appellativo doveva far parte della cerimoniosa accoglienza in uso da quelle parti, o almeno nel grattacielo, pensò Federico.

Padre, beneditemi” gli uscì dalle labbra contro ogni intenzione.

Vedremo” fece il religioso, condiscendente. “Intanto deponga il mantello”.

Non ho mantello” obiettò Federico sorpreso.

Il mantello delle sue opinioni e abitudini. Poche cose, qui, saranno familiari al suo pensiero”.

Federico si rassegnò a sopportare quel continuo predicozzo e si inoltrò a passo deciso in un corridoio male illuminato, pedinato dalla voce litaniante del monaco.

Dopo una serie di svolte di cui Federico non tenne il conto, il corridoio sfociò in una stanzetta dove si svolgeva una strana partita, o almeno così sembrava. Ognuno addossato a una parete, quattro monaci si fronteggiavano a due a due, impugnando racchette da ping-pong e rimandandosi due palline, una per ciascuna coppia. Mancando il tavolo, le palline venivano fatte rimbalzare per terra. Pur incrociandosi ad incredibile velocità, non si urtavano mai.

Dopo trenta secondi il movimento cambiò. Come di concerto, ma senza darsi alcun preavviso apparente, i monaci decisero di passare la pallina non più al compagno di fronte bensì a quello di destra. Le sferette bianche ora si rincorrevano attorno alla stanza. Dopo altri trenta secondi, nuovo cambio: si tornava a giocare a coppie contrapposte, ma battendo la pallina sul soffitto. Poi ancora le sfere vennero incrociate alternativamente sul pavimento e sul soffitto. La volta dopo si mantenne la stessa rotazione, ma le palline non si incrociavano più: mentre una toccava il soffitto, l’altra si schiacciava sul pavimento. Poi si riprendeva da capo, ma scambiando il compagno di destra con quello di sinistra. Insomma, c’era da diventare pazzi.

Per dieci minuti buoni Federico rimase a guardare ipnotizzato. Non una sola volta il gioco si interruppe o le palline si toccarono: l’abilità e la sincronizzazione dei quattro erano strabilianti. Chissà da quanto tempo provavano, quei serafici confratelli, per aver raggiunto un coordinamento così perfetto. Certamente si allenavano per ore e ore tutti i giorni.

Vieni” fece il portiere con un cenno del dito, invitandolo ad attraversare la stanza dietro di lui. Passarono senza essere sfiorati e senza guastare il gioco, le cui fasi continuarono a susseguirsi imperturbate, come se la stanza fosse stata traversata da corpi immateriali. I giocatori non dettero segno d’essersi avvisti dei disturbatori, fuorché per gli impercettibili aggiustamenti delle traiettorie di tiro necessari a schivarli.

La seconda stanza era più ampia. Una ventina di frati vi tenevano un chiassoso convegno, berciando attorno a un tavolino coperto di soldi dove uno di loro raccoglieva scommesse. Al sopraggiungere del “prezioso pellegrino” le voci si smorzarono e più d’uno tacque nervosamente. Il portinaio li rassicurò; in capo a un minuto si erano sbarazzati del momentaneo ritegno e il baccano era ripigliato con pari vigore. Quando si saziarono di scommettere e contrattare, fecero largo scostandosi dal tavolino e spingendolo in un angolo. Da due porte laterali opposte qualcuno spinse dentro due parallelepipedi montati su ruote. Nel primo, una grande cassa di cristallo molato, Federico vide snodarsi e contorcersi un groppo di serpenti; nel secondo, una stia con tre pareti laterali in legno e la quarta chiusa da una porticina a sbarre di ferro, una quantità di conigli si rannicchiavano e addossavano gli uni agli altri squittendo.

Il monaco che aveva spinto il carnaio di serpenti vi ficcò dentro un bastone; attese che una serpe vi si fosse attorcigliata attorno, poi la scaraventò in mezzo alla stanza.

Il frate presso la stia la aprì, ne estrasse un coniglio, richiuse la gabbia e adagiò la bestiola al suolo a conveniente distanza dal serpente.

I due animali si osservarono, il rettile immobile, con la testa appena rialzata e la lingua saettante; il coniglio tremante e incapace di muoversi. Si fece silenzio, mentre la stanza andava saturandosi di lezzo di coniglio. Il serpente prese a strisciare verso l’impietrito leporide: sembrava scorrere entro uno stampo a esse, ricalcandone i meandri. Giunto a mezzo metro dalla preda, si sollevò di quel tanto che l’istinto gli suggerì, quindi scattò in avanti. Il coniglio fu azzannato alla gola; si lasciò sgozzare senza emettere un suono. Mentre l’ofide si predisponeva al pasto, allargando le fauci per inglobare dalla testa il bianco bocconcino impellicciato, i monaci si riscossero dal torpore in cui erano piombati seguendo le fasi del breve assalto e si trascinarono verso il tavolo, chi con l’occhio dardeggiante di soddisfazione, chi con aria delusa. La posta, come Federico apprese da una sommaria spiegazione datagli da un monaco basso vittorioso ed eccitato, toccò a chi aveva scommesso non già sull’ineluttabile vittoria del rettile, ma sul fatto che il coniglio non si sarebbe mosso.

Mentre sul tavolo si ammucchiavano le puntate delle nuove scommesse, Federico scavalcò la serpe che intanto aveva divorato il coniglio fino alle zampe posteriori ed entrò nella terza stanza.

L’arredamento qui era anche più spoglio che nelle stanze precedenti: c’erano solo una sedia e, accanto ad essa, un bilanciere posato sul pavimento. La sedia era occupata da un monaco dagli occhi torvi, che fissava un uomo in piedi davanti a lui, in tenuta da sollevatore di pesi.

Alla domanda di Federico se anche l’atleta fosse un monaco, il portinaio rispose di sì.

Il sollevatore piegò le gambe divaricate, impugnò il bilanciere e, mantenendo la schiena eretta, le ridistese, indi con una leggera spinta della schiena all’indietro sollevò l’asta e la fermò sul petto; dopo un attimo di pausa stese le braccia in alto e sollevò il bilanciere sopra la testa. Quindi fece a ritroso la stessa sequenza di movimenti e si rialzò.

La ripetizione del ciclo fu senza confronto più faticosa. Nonostante non fosse stata aggiunta nemmeno una piastra,l’attrezzo pareva pesare oltre venti chili in più, a giudicare dalla tensione dei muscoli e dei lineamenti del sollevatore: con le mascelle contratte e la fronte gocciolante, questi ripeteva assai più lentamente gli stessi gesti di prima, sotto l’occhio grifagno del monaco seduto.

Chieste spiegazioni dello strano fenomeno e di chi fosse il monaco seduto, Federico si sentì rispondere che quello era l’atleta e l’uomo in piedi il suo allenatore. L’esercizio consisteva nell’aumentare col semplice sguardo la pesantezza del bilanciere.

Così sviluppate il potere di suggestione?”.

Nessuna suggestione: si accresce il peso dell’attrezzo. Dopo l’esercizio il bilanciere viene messo sulla bilancia e solitamente si trova pesante oltre venti chili in più. Non vorrai sostenere che la bilancia sia suggestionabile? Ma passiamo nella quarta stanza” concluse l’accompagnatore senza aspettare la replica dell’ospite che, incredulo, avrebbe voluto sincerarsi coi propri occhi.

Il frastuono di molte voci altercanti accolse i due al loro ingresso nello stanzone che seguiva i primi tre locali. Attorno a una lunga tavolata di noce una ventina di monaci corpulenti schiamazzavano, lanciandosi invettive roventi. Si affibbiavano epiteti senza risparmio di ingiurie, conditi con promesse di atrocità. Il curioso era che ogni tanto un monaco si alzava barcollando e si portava una mano al petto, come colpito da apoplessia, e stramazzava a terra con fracasso. Poco dopo si rialzava e si rimetteva a sedere, però con la faccia un po’ più solcata e la chioma un po’ più canuta; pian piano riprendeva vigore e tornava a fare il gradasso. Finché, dopo quattro o cinque capitomboli, cadeva stecchito e restava lì a farsi calpestare e straziare nel fervore della discordia.

Rimasti ormai in quindici, a un certo punto il più irruento e rubizzo dei confratelli balzò sul tavolo e si sbarazzò del saio. Sotto portava un costume da bagno a righe colorate. Corse a un capo del tavolo e, usandolo come trampolino, si tuffò dalla finestra.

Federico corse a vedere: tre piani più sotto il monaco, spiaccicato sul cemento, nuotava faticosamente a rana nel suo sangue. Federico trasalì sentendosi soffiare nell’orecchio dal suo cicerone: “Il cervello non si è impadronito ella realtà. Riscuotiamolo”. Scesero i tre piani e uscirono attraverso una porticina sul terrazzo dove giaceva il monaco agonizzante.

Il portinaio si chinò su di lui e sibilò con voce soave:

Stai nuotando sul cemento, non nell’acqua”.

Il moribondo parve riflettere un istante: il suo viso si illuminò di comprensione. Strabuzzò gli occhi e si irrigidì.

È morto” commentò sgomento Federico.

Forse sì e forse no” replicò il monaco, come se si potessero ancora nutrire dubbi.

Decideranno i corvi” terminò tranquillamente, rientrando per la porticina.

Allo spettacolo di tanta sovrumana indifferenza il ragazzo si sentì rimescolare.

Perché fate morire tanti monaci? Tenete in così assoluto dispregio la vita umana? Non temete di fare tutti una brutta fine per la leggerezza con cui vi comportate? E poi, insomma, dov’è il monastero?”.

Muore solo chi vuole” ribatté il religioso senza scomporsi. “Da noi la morte è facoltativa. Per rispondere all’ultima domanda, al 351° piano c’è un padiglione della Fiera dei Monaci dove alcune stanze del monastero sono riprodotte a grandezza naturale. Ti gioverebbe visitarle, prima di avventurarti in un ambiente così alieno alla tua filosofia e visione dei mondi”.

Vorrai dire visione del mondo: quella che i tedeschi chiamano Welt…”

Non stancarmi con la tua meschina dottrina”.

Ma è un concetto elemen… 351°? Non credevo che il grattacielo fosse così alto! Non sembra, da fuori”.

I piani oltre il 300° sono invisibili. Sono i Piani Occulti. Visti dall’interno sono perfettamente uguali ai piani normali, tranne per un leggero mal di stomaco che si prova le prime volte che ci si capita”.

Federico si lasciò vincere dalla curiosità. Salutato il suo compagno, prese l’ascensore e si fermò al piano della fiera.

Qui trovò monaci sereni e paciosi che leggevano, si pettinavano, si sventolavano e facevano la siesta. Nessuno di essi sembrava attendere a una qualche occupazione attiva. Molti ruminavano degli strani confetti, arraffandoli da piattini di porcellana che tenevano accanto. Federico si avvicinò a un piattino e le budella gli si torsero. Erano formiche d’argento. “Lo credo che hanno mal di pancia”, pensò. Il proprietario del piattino gliene offrì.

Grazie, ma sono indisposto” tentò di celiare il ragazzo per declinare l’offerta.

Il cenobita rise facendo ballare la pappagorgia.

Devi accettare, diacono. Non te l’hanno detto? Chi rifiuta va in esilio al 1490° per cinque anni”.

Non sono un diacono, solo un visitatore. Quanti dannati piani ci sono in questo grattacielo?”.

Quanti ne puoi salire”.

Ma… ho visto che l’ascensore si ferma al 1000°”, obiettò Federico, ricordando di aver dato un’occhiata in cima alla fila dei pulsanti.

Non è esatto. Al di sopra del 1000 c’è un pulsante contrassegnato con la lettera D. Premilo: l’ascensore ti porterà dove desideri”.

Il tono del monaco era pacato ma perentorio. Non suggeriva, ingiungeva: sapendo, del resto, che il ragazzo si sarebbe fatto tentare da un’esplorazione che si prometteva fertile. Federico infatti si teneva a stento.

Cosa c’è in tutti quei piani?” chiese, cacciandosi distrattamente in bocca una manciata di insetti argentei.

Tutto. Qualunque cosa ti venga in mente. Basta cercarla con cura”.

Il monastero dov’è?”. Il giovane non defletteva dalla sua idea fissa.

Fra le montagne. Ci si arriva solo con un aereo che parte dal 3028°. Ma ce n’è una riproduzione esatta al 2666°. Ti basta salire meno di duecento piani a piedi oltre l’ultimo raggiungibile con l’ascensore, che è il 2485°”.

Federico era frastornato. Quest’ultima informazione era in netto contrasto con le precedenti. Allora la D non portava dovunque? L’idea di salire a piedi oltre duecento piani di scale gli fece venire i bruciori di stomaco; se non erano state le formiche. E poi era stufo di uffici di rappresentanza, padiglioni di fiere, modellini, riproduzioni fedeli. Voleva l’originale. Ma come arrivare a quell’inaccessibile 3028°? poteva avvicinarcisi a tappe? Quanto ci sarebbe voluto? Cominciò a calcolare mentalmente: cento piani al giorno… Lo assalì la febbre della marcia: salutò in fretta il cenobita pacioso e, senza buttare neppure un’occhiata alle stanze interne, si infilò nell’ascensore. Notò il pulsante contrassegnato con la D. Lo premette. La cabina (solo allora notò che era di vetro) si elevò rapidamente, attraversando piani di cristallo che, forse a causa della velocità vertiginosa, apparivano sempre più luminosi e vuoti. Finché fu circondato solo dall’aria azzurra. Tutte le nozioni trasmessegli da quegli stravaganti mistici orientali si stavano sgretolando, vanificate dalla realtà. A meno che non l’avessero voluto confondere apposta, per eludere la sua invadenza di turista becero.

L’aria si tinge di verde, si affolla di verzura. Federico viene deposto all’imbocco di un sentiero. Il monastero è lassù, non distante. Copre a piedi il breve tratto, arriva, spinge la porta. Sua madre lo accoglie.

Finalmente sei arrivato”.

Che fai qui? Come ci sei venuta?”

Sono partita con te. Ero sul tuo aereo. Non mi hai vista, alloggiavo nella custodia del violoncello. Non sono però scesa a Katmandu ma ho fatto scalo a Ciaccona, una località fra queste montagne. Sono giunta al monastero a dorso di mulo, valicando una gola sul Ponte dell’Archetto”.

I trappisti confuciani dove stanno?”

Siamo tu ed io tutti i monaci. Possiamo pregare, digiunare o leggere. Non ci resta molto tempo: il monastero chiude fra un’ora”.

Come, chiude?”.

Per sempre. La religione dei monaci è stata bandita dal paese. Chiunque venga sorpreso vivo qua dentro fra un’ora, verrà massacrato. A meno che non stia suonando il violoncello. Ma ora sono stanca. Lasciami sdraiare sul letto”.

Se ne va nell’altra stanza. Federico la segue.

Mamma…”.

Le si avvicina. Fa per riscuoterla. La tasta, non ha polso. Addossato al muro c’è un violoncello. Federico lo imbraccia e attacca la Giga della Suite n° 2, nel silenzio lentamente avvelenato dal crescente clamore dei soldati che si avvicinano.

La sentenza

L’avvocato della controparte sembrava una persona modesta, un professionista di mezza tacca, incapace di far valere le ragioni del suo assistito, d’altronde tenui e mal difendibili: lo si vedeva inetto ad esporre, titubante, confuso sui dati, madido di sudore nervoso, con le mani che annaspavano, sempre in cerca di qualche carta introvabile.

Invece di colpo se ne uscì con una brillantissima perorazione, spedita e diritta, summa di sapienza legale e sarcasmo forense, che lasciò tutti a bocca aperta con la sua mitragliata di petardi causidici, come un’inattesa Piedigrotta giudiziaria.

L’arringa si srotolò col fracasso di una saracinesca, completa di tutto ciò che si può chiedere a un’arringa: cappello retorico, argomentazioni stringenti, citazioni di giurisprudenza e dottrina, pistolotto finale.

Da tempo non si erano visti simili pezzi di bravura, commentarono fra di loro i giudici a latere. In omaggio a tanto virtuosismo, pur essendo pienamente convinti delle mie ragioni, stesero la sentenza che mi affossava.

Margherita

Sto scrivendo per lei. Non per altri. È lei che m’incoraggia a scrivere, ed è l’unica ragione del mio scrivere. Spero che approvi quello che scrivo. Lei approva sempre che io scriva ma non approva tutto ciò che scrivo. Questa possibilità di mancata approvazione mi procura ansia, tanto più che lei è di fronte a me e mi guarda scrivere. Scrivo sempre sotto il suo sguardo. Non si lascia sfuggire una sola riga di quanto vado scrivendo, benché non legga, non perché non sappia leggere al contrario ma per lealtà: sa che non amo esser letto mentre scrivo, così rimanda la lettura a quando avrò terminato. Naturalmente, mentre lei legge, non posso scrivere, altrimenti lei non mi potrebbe seguire. Reciprocamente, la guardo sempre mentre legge, spio convulsamente i lineamenti del suo viso, trasalgo ad ogni più lieve mutazione, e lei se ne accorge. Se ne accorge, ma non può evitarlo. Per quanto si sforzi di restare impassibile, ogni tanto il moto di un muscolo la tradisce. La sua lealtà le vieta naturalmente anche di leggere di nascosto: sa che ci tengo a seguire le sue reazioni mentre legge almeno quanto lei tiene a guardarmi immerso nella scrittura. Del resto, dopo il leggere e lo scrivere, rimane così poco tempo per altre attività che non sarebbe possibile isolarci per coltivare di nascosto la nostra passione.

Abbiamo provato ad invertire i compiti ma non funziona, lei non ha talento di scrittore né io ho pazienza di lettore. No, ognuno deve limitarsi a fare ciò per cui è tagliato. Sono talmente poco tagliato per la lettura che raramente leggo ciò che scrivo, non parliamo poi di rileggerlo. Lei invece rilegge volentieri, le cose che approva, si capisce; ne fa dei mucchietti ordinati ai suoi piedi, mentre quello che non approva se lo butta dietro le spalle, e i fogli finiscono per sparpagliarsi e perdersi al vento. Peccato, perché non abbiamo identità di vedute e spesso ciò che a lei non piace mi aveva incantato a scriverlo, almeno da quel poco che ricordo, certo non rileggendo non posso dirmi sicuramente obiettivo, ma vorrei che almeno lei leggesse ad alta voce, sarebbe un’utile verifica per il mio lavoro, oltre che, talvolta, una gratificazione: così invece non so mai a che punto della mia opera lei ha sorriso, o ha indurito il volto, o ha sgranato gli occhi, e talora mi riesce difficile misurare la stessa intensità della sua partecipazione. Ma lei vive di questi piccoli capricci – molto altri ne potrei enumerare – e per niente al mondo cambierebbe le sue abitudini; almeno, in questi ultimi dieci anni (o sono venti?) non l’ha mai fatto.

In questo periodo sto scrivendo un racconto su un uomo e una donna rimasti soli su un’isola, forse per un naufragio, forse invece per deliberata scelta, devo ancora deciderlo, e lei non fa che scrivere, lui non fa che leggere ciò che lei ha scritto. Sull’isola non si trovano libri, così la dipendenza reciproca dei due è assoluta. Si potrebbe ravvisare in questa situazione un’analogia con quella mia e di Margherita, ma le somiglianze sono solo apparenti. Innanzitutto noi non siamo su un’isola ma in pianura, in aperta campagna, vicino a una cava di marmo. Inoltre nel racconto le attività sono invertite (è lei che scrive) e questo falsa completamente la prospettiva, non sarebbe neppure concepibile nella realtà. Un’altra fondamentale differenza sta nel fatto che io scrivo su fogli di carta sparsi mentre lei, la scrittrice del racconto, ha a disposizione pile e pile di quadernetti, e quando li terminerà potrà prelevarne altri da un magazzino dell’isola, che a quanto pare – ma c’è da verificarlo con cura – qualcuno non lascia mai sguarnito, provvedendo a rifornirlo man mano che lei vi attinge.

Il primo dubbio che mi assale, iniziando a comporre il racconto, è se piacerà a Margherita. Se gradirà che siano messe a nudo così sfacciatamente le nostre vicende private, poiché, nonostante tutto, questo è un racconto autobiografico. Non si tratta di darle in pasto alla gente (quale gente? Siamo soli e lei lo sa bene), quanto piuttosto di un forzare la nostra vita che scorre così liscia e al riparo dai drammi, benché non si intuisca quali drammi possano maturare dal solo fatto di descrivere la nostra situazione. Ma lei si intestardisce (non ancora, ma soltanto perché è ancora all’oscuro del racconto) a non volere che i fatti nostri siano messi in piazza, sia pure una piazza non frequentata da altri che da noi due. Per certi versi la capisco, la pubblicità ha sempre un che di indelicato e lo scrivere è pur sempre un’azione pubblica, per quanto scarsi siano i lettori, neppure forse del tutto consapevoli di ciò che leggono. Ma lo scrittore è fatto così: avanza, avanza inesorabilmente fino all’interruzione repentina, che a volte coincide con la fine legittima dello scritto. Questo Margherita, da lettrice caparbiamente sprovveduta, non lo ammetterà mai.

Ma non devo lasciarmi fuorviare da certe manie: l’essenziale è far bene e proseguire nel racconto. Dopo aver fissato l’ambiente, uso analizzare i rapporti fra i personaggi. La cosa è più complicata quando i personaggi sono molti, però anche da due, lavorando con pazienza e fedeltà all’assunto, si riesce a cavare un intrico di relazioni perfino più fitto di quello – necessariamente semplificato dalle esigenze del vivere in società – che avvolge i personaggi quando sono uno stuolo. Anzitutto è da decidere, benché si possa poi farlo indovinare al lettore con accenni indiretti, in che rapporti obiettivi stiano i due: se siano marito e moglie, amanti, fratelli, amici, nemici o più combinazioni fra queste. Se dovessi ispirarmi alla realtà, vale a dire ai miei rapporti con Margherita, dovrei descriverli come due estranei che forzatamente si sono conosciuti vagando sulle colline. Ho detto forzatamente e non casualmente: come si può infatti ignorare una persona incontrata dopo giorni e giorni di vagabondaggio durante il quale non si è vista anima viva e ci si è finalmente convinti di essere gli unici superstiti dell’umanità? La scoperta di un altro superstite non può non colpire, gioiosamente e dolorosamente insieme; lo si vede come colui che porrà fine alla nostra solitudine ma anche come un possibile attentatore alla nostra incolumità, un restrittore della nostra illimitata libertà, un avversario della nostra incontrastata padronanza del mondo, padronanza che, possiamo dirlo a nostro vanto, non ci ha mai indotti a spadroneggiare. So che vi aspettate che vi dica che cosa ne è stato dell’umanità: catastrofe nucleare, guerra batteriologica, sterilizzazione universale o che altro. Non posso accontentarvi, purtroppo: non lo so. Vivo solo, o meglio vivevo. Ora, se non altro, c’è Margherita che non mi lascia un attimo, forse per paura che svanisca il suo unico e ultimo compagno. Lei invece era socievolissima, è stato un duro colpo ritrovarsi sola al mondo. Vivevo dunque con Margherita, no, cioè, vivevo solo. Un giorno, svegliandomi, mi sono affacciato alla finestra: non c’erano i soliti contadini, le solite mandrie nei campi. Sono sceso in paese e anche lì non ho trovato nessuno, neppure nei bar. Insospettito e allarmato, ho preso a girovagare nei paesi circostanti, sulle strade maestre; mi sono spinto fino alla città più vicina. Non potevano essere spariti proprio tutti, non dico morti, proprio spariti, con i corpi e tutto, dileguati, uomini e bestie, neppure una vecchia che si fosse attardata, uno scemo sull’uscio di casa, non un essere vivente. Eppure era così. Solo le cose erano al loro posto, gli alberi, le case, le colline, dove mi sono scoperto a vagare, impazzito dallo sbalordimento, fino a incontrare Margherita. Così ci siamo conosciuti, non ricordo quando, ci siamo presentati, certo non subito, non ricordo cosa ci siamo detti subito, ero fuori di me.

Poi c’è un vuoto nella mia memoria, da quando stavamo sulle colline a quando siamo venuti in pianura. In questa pianura da dove non si vedono né colline né altri rilievi – boschi, fattorie o cose del genere. La nostra età è indefinibile: io ho i capelli neri ma la barba bianca, lei è bionda e un giorno mi sembra che abbia le rughe, ma non ne sono certo, un altro giorno ha la pelle quasi sicuramente liscia.

La vista comincia a difettarmi e non ho occhiali, e come potrei procurarmeli, cosa farò quando non mi sarà rimasto neanche lo scrivere, di pari passo anche Margherita ha degli abbassamenti di vista, me ne accorgo dal suo viso troppo intento, dalle palpebre che si restringono per mettere a fuoco le righe, dal suo istintivo, anche se dissimulato, avvicinare il foglio alla faccia. Mi prende la tenerezza se penso che stiamo arrancando insieme verso la vecchiaia, una vecchiaia inerme, priva di minacce esterne ma anche di assistenza, e non potremo fare altro che raccontarci favole, lei mi narrerà quello che ricorda dei miei scritti, io non sarò certo in grado di correggerla, potrò solo, raccogliendo le scarse e provate energie residue, farle un’ultima narrazione orale, sperando le piaccia, mi importerà ancora come prima il suo apprezzamento, poi ci guarderemo in silenzio e chiuderemo gli occhi, per far scorrere le storie appena inventate.

Ma non devo lasciarmi andare alla nostalgia dei tempi che verranno, devo conservarmi lucido fino all’ultimo, è troppo importante dire per lasciar detto ai posteri, quali posteri, dimentico che queste pagine marciranno sotto la pioggia dopo la nostra morte, se Margherita non ne avrà fatto giustizia ancor prima. Ad ogni modo queste divagazioni mi hanno allontananto dal racconto. È sempre così, ogni cosa che scrivo si innesta sul ceppo dei ricordi, quando mi desto è troppo tardi, ha preso ormai una piega sbagliata e non sono più capace di pilotarla, s’impenna e non ne vuol più sapere, devo smettere bruscamente, sollecitato fra l’altro da Margherita che è sempre più impaziente di leggere, mi vede scrivere da troppo tempo e la curiosità la divora, quantunque sappia, mi auguro, che non leggerà niente di insolito, ogni volta ce la metto tutta ma ormai so dall’inizio dove vado a parare, anche lei dovrebbe averlo capito ma è come gli insaziabili lettori dei gialli dai meccanismi tutti uguali, del resto il solo fatto di disporre le parole in modo diverso è già una novità, in questa valle dove le distrazioni non sono molte.

Ho perso il filo. Ancora? Calma. Il filo della vita. No, solo della novella. Quale novella? Ah, sì, quei due. Cosa c’è ancora da dire su di loro? Tutto. Chi sono, che fanno. Quesiti accademici. Rispondi lo stesso. Lui è Romeo. Lei è Francesca. Meglio Paolo e Francesca. Meglio ancora Guido e Francesca.

Sono Eleonora. La donna di Guido. Donna non in senso tecnico, ma in quanto lui è un uomo, l’unico sopravvissuto ai flutti, e l’uomo è il naturale complemento della donna. È comprensibile che lui si ostini ad avere vedute diverse su questo punto; non che neghi apertamente la mia affermazione, potrei confutare con facilità i suoi argomenti: piuttosto manifesta la sua disapprovazione in cento modi puerili, come il cambiarmi nome per asserire un qualche potere su di me. Naturalmente le sue motivazioni sono sfuggenti, non ammetterà mai il suo vero intento, preferendo trincerarsi dietro motivi apparenti: mi chiama Francesca, sostiene, perché gli piacciono i nomi semplici; Eleonora, il mio vero nome, sa di aristocratico e quasi lo mette in soggezione, il che è ridicolo, essendo noi gli unici superstiti del naufragio, credo si tratti di questo, a meno che non siamo stati paracadutati da un elicottero che subito dopo è scoppiato in volo. Ma è inutile contraddirlo. Certe sue manie bisogna lasciargliele, come le chicche che si danno ai bambini, perché faccia più volentieri il suo mestiere di complemento.

Una prova inattaccabile della sua subordinazione, non in quanto carattere più debole ma in quanto uomo, è data dalle nostre attività: io sono colei che scrive, lui è colui che legge, e non legge altro che ciò che scrivo. È vero che per il momento ciè sconosciuta l’esistenza di altri libri su quest’isola, ma non ne è stata neppure provata l’assenza: lui non si è sforzato di cercarli, non ambia, evidentemente, a sgravarsi della sua sudditanza. Poiché siamo rimasti gli unici due esseri viventi della terra, compresi gli animali, si può ben dire: “tutte le donne scrivono, tutti gli uomini leggono ciò che le donne hanno scritto”. Mentre lo scrivere è un’attività indipendente dalla lettura successiva, libera di esistere anche da sola, dunque sovrana, il leggere è vincolato a quella, dunque suddito. Sarebbe facile per l’uomo scrollarsi di dosso questo giogo, mettendosi a scrivere a sua volta e magari costringendomi a interrompere la scrittura per leggere le sue carte. Ma, vedete, ciò non accade. Cosa significa questo? Che l’uomo, comprendendo che l’armonia del mondo si fonda sulla spartizione dei compiti, ha accettato di buon grado quello subalterno, non essendo in grado di assolvere al principale.

Un’altra prova di questa sua dipendenza è che egli sopporta che io chiami me stessa “io” o “Eleonora”, mentre a lui riservo l’appellativo di “uomo”, quasi volessi confonderlo nel genere dei suoi simili, quantunque ciò non abbia senso: egli è l’unico rappresentante, ormai, del suo genere. Non può non rendersi conto che la mia è una manovra per umiliarlo ancor più, privandolo dell’identità individuale. Ciononostante si guarda bene dal protestare. Mai una lamentela è uscita dalle sue labbra servili.

Ma lasciamo per un momento da parte il mio vassallo e facciamo un passo indietro. Poco fa mi sono presentata. Ciò potrebbe indurvi a ritenere che queste pagine siano le prime che scrivo e che quindi le mie affermazioni precedenti circa l’incapacità di reagire dell’uomo siano premature. Niente di più falso: ho l’abitudine di presentarmi spesso, anche più volte nel medesimo scritto, più che altro per tenermi presente, capirete che quando si è totalmente isolati si tema con angoscia il rischio sempre incombente della perdita di memoria. Non posso affidarmi alla lettura di vecchi fogli per rinfrescarla: il mio nome appare qua e là in modo disordinato, spesso per centinaia di pagine viene omesso, del resto non ho tempo di rilegegre i miei scritti, questo è compito dell’uomo, né posso rendermi dipendente da lui per sapere come mi chiamo. Vedete dunque che le presentazioni non dimostrano nulla. In verità sto scrivendo da parecchi anni, venti o trenta credo, non è possibile rilevarlo con esattezza dal mio aspetto né da quello di Guido, qui il tempo pare essersi fermato, abbiamo sempre trent’anni – ventotto, trentadue forse – oppure abbiamo dimenticato quali sono i sintomi e i caratteri della vecchiaia e forse li abbiamo tutti ma non ce ne accorgiamo. Sper solo che morremo nello stesso istante, perché se non succedesse non saprei proprio chi augurarmi che muoia prima. Sarebbe una catastrofe in ambedue i casi: nel caso muoia prima io, perché un complemento non può sussistere senza il suo oggetto principale; nel caso inverso, perché neanche l’oggetto prinicpale, proprio in quanto è il principale, dunque non l’unico, può sussistere senza il suo complemento.

Ed ora – scusate la bruschezza del passaggio – affrontiamo il racconto vero e proprio. Sì, sono una scrittrice di racconti. A proposito: non crediate che, quando dico “voi”, abbia in mente una pluralità di soggetti. Il mio unico lettore, non potrebb’essere altrimenti, è Guido. Dicevo, il racconto. Ne ho già un’idea abbozzata: un uomo e una donna siedono l’uno di fronte all’altra. Lui è uno scrittore, lei una lettrice. Sono sopravvissuti a un cataclisma (quale?). Come si chiamano? Per ora ho in mente solo il nome di lei: Margherita.

Riprendo la parola. Francesca (la falsa Eleonora) sta tentando di confondere le piste. Sono io il vero narratore, non è lei che narra di me. Le ho concesso questa stravaganza di descrivermi come un suo personaggio, ma vi prego di credere che tutto è strettamente sotto controllo. Anche tu, Margherita, quando mi leggerai, non sogghignare. Prima di tutto perché non è vero che l’uomo sia suddito della donna, semmai il contrario. Poi perché, se anche lo fosse, lo pagheresti a caro prezzo: al prezzo cioè di diventare un personaggio, da donna in carne e ossa quale sei. Mi rendo conto che, in certi momenti, tutto può parere preferibile a questa vita. Ma la vita che ti aspetta in quelle pagine non sarebbe granché migliore. A parte il discutibile vantaggio di chiamarti Eleonora, o Francesca – io sostengo che Margherita è più dolce – l’unico sostanziale cambiamento sarebbe che diverresti una scrittrice. Scrivere non è poi così divertente, lasciatelo dire da uno che ne sa qualcosa. Scrivere è appena meglio che spaccar pietre, e non sempre.

Non per fare della facile ironia nei tuoi riguardi, caro scrittore senza nome, ma come vedi ti interrompo quando voglio. Se l’uomo è servo della donna (scusa la brutalità della frase), figuriamoci cos’è un personaggio letterario creato da una donna. Poco più di un verme.

Se è un verme, lo puoi schiacciare quando vuoi. Questo presuppone che tu non ti faccia togliere la parola dopo poche righe. Farsela togliere da un verme è disdicevole. Su, vieni a schiacciarmi.

Non vedi che gioco con te come il gatto col topo? Mi permetto il lusso di lasciarti cullare nei tuoi deliri. Al momento opportuno, però, dirò basta e sarai annientato. Ti trasformerò in una comparsa del racconto successivo, che parla di affogati.

E quando verrà questo momento?

Non sono tenuta a dirtelo. Lo scoprirai quando meno te l’aspetti, con tuo scorno.

Basta con queste frottole. Invoco il giudizio del lettore.

Sono il lettore. Mi chiamo Margherita, Francesca, Eleonora, Romeo, Paolo, Guido. Inoltre non ho nome, e ne ho ancora altri che non rivelo. Vi esorto, colleghi di lettura, a non condividere le teorie fin qui esposte. Poiché sono il lettore, dunque l’autore, le mie opinioni sono anche sentenze e paradigmi. Quando mi risveglierò vi dirò la verità. Intanto abolite le dispute, appendete le chiavi della discordia, ascoltate intenti il rumore dei ritorni, il ritorno dalle colline.

La testa

La testa. Il primo punto colpito dall’esplosione. Non so bene cosa sia esploso ma è stato molto vicino. Non mi ha ferito, credo; non rintraccio segni di ferite sul mio corpo; eppure in qualche modo mi ha colpito. In quali punti? La testa, ho detto. Indubbiamente. Da allora non è più la stessa. Nel ragionare, forse. Ma se sragionassi non me ne accorgerei: mi crederei assennato. Tutti gli usciti di senno sono convinti della propria lucidità: la prima cosa che si perde quando si impazzisce è la facoltà del dubbio. Ma allora cosa. La memoria. C’è forse qualcosa che non ricordo? Mi accade spesso di non. Di non riuscire a ricordare a cosa stavo pensando. Sarà la distrazione, mi dico. Ma perché mi distraggo? Mi scappa di mano il filo dei pensieri e mi accovaccio sul pavimento e sto due ore a cercarlo e non lo trovo. Trovo tante di quelle cose che non mi servono. E inizio dieci lavori e li smetto. Sì, ne smetto uno per farne un altro. Poi smetto quello perché… perché non si arriva, non si arriva a far tutto. La mia finestra dà sulla strada. La mia porta sulle scale. Uscire. Perché non posso? Cioè, non voglio. Ho detto posso ma era voglio. Giusto. Stramazzo sui cuscini, lascio ciondolare le gambe sul divano. Ecco: dormire. Questo non posso fare. Non quando voglio. Dormirei di giorno ma non me lo permettono. Anche restare sempre vigile non sta bene. Come sono irritanti, noiosi, con quella mania dell’attenzione continua. Lasciatemi stare. Non vedete che ho sonno? Sono io che, per puntiglio, seguito a lavorare come un automa. Anche se per scherno mi lasciaste dormire, non raccoglierei l’invito. Non fate che provocarmi; vi oppongo il mio strenuo lavoro, solitario e ronzante. Ho la sensazione persecutoria che non ve ne importi nulla: beffardi, mi vedete affannarmi qua e là, mentre mi tenete un dito sul capo; quasi ad insinuare che giro a vuoto ed è inutile che mi dia tanta pena. Tutto ciò lo lasciate intendere con un sogghigno alle mie spalle. Di chi è la colpa se sono ridotto così? Voi avete avuto la vostra parte in ciò. Non ve lo rinfaccio, sono troppo orgoglioso per farlo e non ne ho le prove. Non che mi servano: so però che sareste pronti a rimbeccarmi, se mi esponessi senza prove. E il mio orgoglio, ancora una volta, rifugge dalle facili sconfitte. Mi indispettisce vedervi trionfare e insuperbire del trionfo. Ingoierò anche questo rospo, e voi lo sapete, perciò calcate la mano. Se uno è troppo diritto, lo svillaneggiate. Il mondo è dei mascalzoni. Sono passato da me a voi. Voi siete divenuti il fulcro delle mie secrezioni biliari. Vi maledico per sempre. Maledico anche questa testa che ronza, che fruscia. Chi la fermerà? Dovrei cedere all’istinto di fuggire, di prendere le armi, ribellarmi con l’urlo e non col mutismo, rotolarmi per terra e dare pugni nel muro. Invece penso, leggo, guardo. Mi imprigiono. Chiudo la cella a chiave dal di dentro e metto la chiave sotto il cuscino. Almeno non la butto dalla grata. Ma sarà poi vero che non l’ho buttata? Ho mai provato a guardare sotto il cuscino? Tutti i giorni controllo e la chiave è a posto, mi dico. Ma con inquietudine ammetto intimamente che non controllo mai.

La fossa

(monologo)

Una donna, sola, al centro della scena

Manca un anno. Fra un anno ci scanneremo. Tutti gli abitanti del mondo si scanneranno in questa fossa in cui sono precipitati. Il segnale lo darà l’orologiaio. Non ho paura di quel momento, ho avuto vent’anni per prepararmici. Posso dire che li ho impiegati bene. Ho pensato e ripensato: ho messo tutta la filosofia al servizio di quel momento. Dopo le ricerche metafisiche e le considerazioni morali, mi sono appigliata al mio acume poliziesco per ricostruire in anticipo la vicenda. Quell’uomo laggiù, vedete? (indica il fondo). Sono arrivata alla conclusione che sarà lui a cominciare. È agile, dai riflessi pronti. Lo vedo fare esercizi marziali, scattare in avanti col braccio teso, piroettare all’indietro e sferrare un pugno, girarsi dopo un doppio salto mortale e menare colpi di karate, lui dice per tenersi in forma ma è evidente che vuol farci fuori tutti. O per lo meno resistere il più a lungo possibile. È umano, del resto. Istinto di scannamento, c’è in ogni uomo. Non lo temo. Alla sua forza bruta contrappongo il mio animo pacificato. Mi sono rassegnata: tanto non posso sperare di farcela, fra tanti milioni di persone pronte a scannarsi. È peggio di un concorso di bellezza: lì, se non riesci, puoi ripresentarti l’anno dopo.

Pausa

Che ore sono? (guarda l’orologio) È l’ora della tastata (fa qualche passo a sinistra e tasta un’immaginaria parete). È sempre lì. Anche se non la vedo. Dalla consistenza si direbbe granito. Quante volte ho fatto quest’osservazione. Andiamo dall’altra parte (fa qualche passo a destra e tasta un’immaginaria parete). Anche questa. Le altre due le tocco domani: serve a distinguere i giorni pari dai dispari. Certo, è sempre possibile che ogni giorno spariscano le due pareti che non tocco. Per riapparire il giorno dopo, quando è il loro turno di essere toccate. Ho riflettuto molto su questa possibilità e, benché minima, ho deciso di non trascurarla. Nel corso della giornata mi avvicinerò alle altre due pareti e con fare noncurante le urterò con la spalla, o col ginocchio, o col piede. Tanto per vedere.

Pausa

Fra un anno. Ma quanti anni sono che l’umanità è precipitata qua dentro? Rispondere a questa domanda potrebbe forse servire a differire il termine. Ne dubito. Comunque non riesco a trovare una risposta soddisfacente. Non c’è un calendario. Ed è inutile chiedere, non ti rispondono. Ognuno bada a sé, non posso pretendere che mi salvino a spese loro. D’altra parte, come fanno a rispondermi? Non li sento neanche camminare. Non so che voce abbiano. Quando faccio per toccarli, si scansano. Sento come uno scalpiccio di gente che si ritrae, lo capisco dai vortici d’aria. Stanno affinando la tecnica per sfuggire al mio pugnale – ho fatto loro credere di avere un pugnale, invece ho solo le mani nude – però, a pensarci bene, potrebbero sentirmi. Che sentano. Non è l’essere ammazzata che mi spaventa. È il non esserlo. Che genera il timore di esserlo. (Pausa). Le mie mani (se le guarda). Sono forse capaci di trucidare qualcuno? Hanno sempre ricamato, cucito, toccato libri. L’attività più violenta per loro è stata reggere il volante.

Pausa. Fa qualche passo verso il fondo

Verso sera mi sposto qua. È più buio, favorisce il riposo. Non ho bisogno di stendermi, come potrei, con tanta gente accalcata, se mi lascio andare non cado nemmeno. Dormire. Non è più necessario. Mangiare, bere. Tutte attività voluttuarie. Abbiamo imparato a farne a meno. È un bene, perché nessuno si preoccupa di noi, della nostra alimentazione , del nostro ristoro. Già, e chi potrebbe? Siamo tutti qua dentro. È un bene, dunque, aver imparato. Necessità fa virtù. Respirare, è ancora inevitabile. D’altronde l’aria è tanta, anche se deve fare un lungo percorso all’ingiù per raggiungerci. Per questo non abbiamo cercato di farne a meno. Si bada solo a sopravvivere come si può, in attesa di quel momento. Ripeto, ognuno pensa ai fatti suoi. Non ci si scambiano battute, saluti, commenti sui fatti del giorno. Che naturalmente ognuno può osservare da sé, essendo tutti i fatti concentrati in questa fossa di 10 metri per 20. Chissà se gli altri si vedono fra di loro? Può darsi di no, si spiegherebbe il perché di questo silenzio. No, non si spiegherebbe. La gente potrebbe parlare da sola, come faccio io. Strano anzi che non lo faccia. Posso dunque supporre che gli altri, oltre a non vedersi, non si odano. Supporre, ma non dimostrare. È anche possibile che si vedano senza udirsi. Che me ne importa? Per me non fa differenza. Mera curiosità.

Pausa. Alza gli occhi

Ecco. Anche adesso. Qualcuno sta buttando giù della sabbia. (Si fa schermo agli occhi). Non manciate, uno spolverio che cade dal ciglio. Già da qualche ora: sento la sabbia scricchiolarmi sotto i piedi. Chissà quanta ce n’è, ammucchiata là sopra. Basterà a ricoprire la fossa? Impossibile. Non è questo il nostro destino, è di scannarci l’un l’altro.

Pausa.

Mi è anche venuto in mente che tutti siano scappati. Alla chetichella, a frotte. Lasciandomi sola a compiangermi. Non mi rimarrebbe che suicidarmi, quando sarà il momento. Già, ma chi mi darà il segnale? L’orologiaio è scappato con gli altri. Forse ha lasciato una sveglia per me. (Cerca per terra). Niente sveglia. Del resto sarebbe difficile trovarla, al buio e sotto la sabbia.

Pausa.

Non si può dire che annotti presto. Il cielo ha come una lenta perdita di luce. Che dura da quanto? Non ha mai fatto notte da quando sono qui, né ha mai albeggiato, c’è stato solo un impercettibile oscuramento progressivo. Continuo. A meno che non si sia fermato per qualche giorno, per poi riprendere ancor più lentamente. Non saprei, non sono così brava a discernere le tonalità della luce. Tutto lascia supporre che sarà notte piena esattamente fra un anno, quando la fossa sarà ricolma di sabbia. Ma potrebbe essere solo mezza piena, di questo passo. E la notte potrebbe anche regredire, sebbene finora non l’abbia fatto.

Pausa. Fa qualche passo a destra, appoggia le palme e la faccia alla finta parete

Dei del cielo. Questa è l’ultima volta che vi prego. Scoverò qualcos’altro, qualcosa di più efficace. Perché mi tormentate? No, non mi tormentate veramente, ho già detto che ho raggiunto la serenità, è lecito anzi supporre che me l’abbiate elargita voi. Eppure non vi sopporto. Vi sento arcigni. Come questo granito, che non si riesce a scalare, quante volte ci ho provato, così come ho provato a scalare voi, altrettanto inaccessibili, per giunta vi siete messi uno sulle spalle dell’altro, siete migliaia, sicché non arriverò mai all’ultimo di voi, che è naturalmente l’unico importante, l’unico che può concedermi la grazia, d’altronde non la impetro, non voglio favori da nessuno, vi date tante arie ma non contate niente e se qualcuno mostra di ignorarvi ci rimanete male.

Pausa. Guarda in basso

La sabbia mi è arrivata alle caviglie. (Guarda in alto). Però hanno smesso di buttarla. Il vento è cessato. I rumori sono cessati. In fondo, però, c’è sempre stato silenzio. Non è ancora notte, come al solito. La gente ha smesso di ritirarsi, forse perché si è già ritirata al limite del possibile, fino ad appiattirsi contro il granito, giungendo a modellarsi sulla sua granulosità. Continuo ad aspettare. Fino all’anno prossimo, quando l’orologiaio darà il segnale, o il segnale si darà da solo. O finché succeda qualcos’altro. Non so, ad esempio… qualcosa.

 

25/12/1982