Beethoven – Variazioni su “Se vuol ballare”

Beethoven – Variazioni per violino e pianoforte

sull’aria “Se vuol ballare” da “Le Nozze di Figaro”

Yehudi Menuhin, vl – Wilhelm Kempff, pf

https://www.youtube.com/watch?v=NO4KkhfcUis

Inauguro l’anno beethoveniano con l’unico ciclo di variazioni per violino e pianoforte composto da Beethoven, se si eccettuano quelle incorporate in altre composizioni, ad esempio le 4 dell’Andante con Variazioni della Sonata a Kreutzer. Si tratta delle 12 Variazioni WoO 40 sul tema “Se vuol ballare” da “Le Nozze di Figaro”.

Le cronache ci dicono che l’opera, composta da un Beethoven ventiduenne, fu data frettolosamente alle stampe per battere sul tempo i pianisti dell’epoca che, dopo aver ascoltato le sue improvvisazioni, le trascrivevano e quindi le pubblicavano spacciandole per proprie.

Quando pensiamo all’Arte la collochiamo in un mondo ideale che purifica lo spirito. Ma le meschinità e i colpi bassi fra gli artisti – non solo i mediocri – non si contano. Non voglio addentrarmi in questo troppo vasto territorio: torno dunque al brano.

Secondo certa critica, il suo interesse sarebbe secondario. Qui si tratta di intendersi sul significato di questo aggettivo. Se paragoniamo il lavoro alla Sonata op. 96, per restare sullo stesso organico, o alle maggiori Sonate per pianoforte o ai Quartetti per archi, è evidente il divario di qualità. Ma in Beethoven il “minore” è così ricco di passaggi meravigliosi da lasciarci comunque entusiasti, quando non estasiati. Andiamo dunque a riguardare l’opera da vicino.

La briosa canzonatura di Figaro, percepibile nel Tema dal pizzicato del violino che imita il “chitarrino”, cede subito il passo ad atmosfere che si allontanano dal sardonico umorismo mozartiano.

Già la Prima Variazione ci introduce nel mondo dolcemente cantabile del primo Beethoven. Mentre il violino intona una tersa melodia, il pianoforte se ne va a spasso fra le ottave, deliziandoci con una lunga frase legata. C’è poi una variazione nella variazione, dove il tema rimbalza fra note staccate e intervalli via via ampliati dalle terze alle seste fino alla conclusione smorzata.

Con la Seconda Variazione il tono vira bruscamente sul forte – staccato. Il pianoforte ha il ruolo predominante (ma ricordiamo che la parte del violino fu aggiunta: non deve dunque stupire se qua e là assume una funzione ancillare). La mano destra si lancia in un furioso accompagnamento di semicrome sotto il tema in crome; la mano sinistra commenta con note staccate.

Questa irruenta variazione ha l’evidente fine di spezzare l’uniformità di tono, intento in cui Beethoven riesce in genere benissimo.

Nella Terza Variazione ritorniamo al piano – legato. C’è una breve sovrapposizione iniziale dei due strumenti nella linea melodica, ma poi il passo si differenzia. Il violino fornisce un timbro sospiroso al pianoforte che, col suo tranquillo disegno ascendente e discendente di note singole, poi raddoppiate in quinte, indi in terze, comunica un senso di profonda pace.

La Quarta Variazione è di nuovo di quelle “galvanizzanti”. Dopo un’introduzione pianistica in ff di 5 battute, il tema viene agganciato dal violino, che poco dopo si produce in una serie di do ripetuti, piccoli colpetti che ritmano lo scorrazzare a due mani del pianoforte. Nelle battute da ripetere il tema viene passato dal violino al pianoforte, prima alla mano destra poi al basso, finché i due strumenti cantano insieme in ff fino alla conclusione. In questa variazione la melodia si intreccia vivacemente, lasciando scarso peso all’armonia.

Considero la Quinta Variazione un piccolo miracolo. Qui Beethoven riesce con mezzi semplicissimi a toccare le nostre corde più riposte. Il tono della variazione oscilla tra il “piano” e il “dolce”. A un trillo del violino segue subito una scaletta staccata discendente della destra, che poi risale fino a un trillo, poi di nuovo una scaletta staccata discendente, stavolta al basso, con tenui commenti dei comprimari. I successivi tre trilli aprono un episodio di grande commozione.

Qui vorrei accennare alla singolare funzione che svolge il trillo in Beethoven. Penso che si potrebbe scrivere un libro, se si volessero analizzare tutti i punti delle sue composizioni in cui Beethoven usa il trillo. Questo, che tecnicamente viene definito un abbellimento, perde la funzione decorativa che aveva normalmente nelle epoche precedenti. Diventa una carezza, un allargamento del cuore, un caldo sorriso con cui Beethoven accompagna melodie di grande intensità, gettando alle ortiche lo stereotipo di burbero Ciclope che gli viene cucito addosso, per svelarci la sua profonda capacità di amare, così difficile da esternare nella vita ma toccante fino alle lacrime nella sua musica.

L’episodio che comincia all’ottava superiore con do – si bequadro – do è infatti di una dolcezza disarmante; Beethoven sente il bisogno di ripeterlo al basso, mentre la destra si limita a due intervalli di ottava do – do che sono come due tuffi al cuore. E la variazione si avvia al silenzio a passetti staccati.

La Sesta Variazione, in cui la melodia è affidata al solo violino mentre il pianoforte sostiene tutta la parte armonica, è un “p espressivo” di tono quasi mesto. Questa breve variazione di appena due righe, che sembrerebbe di transizione, esprime invece un compiuto stato d’animo ed ha una forza consolatoria di cui il violino di Menuhin esprime appieno il pathos.

La Settima Variazione, lungi dal discostarsi dal clima della sesta, lo ripropone a parti scambiate (ha infatti identica durata): la linea melodica passa alla mano destra; il basso ha ancora una volta le chiavi dell’armonia, mentre il violino sostiene un elegiaco controcanto, che nelle ultime battute Menuhin rende veramente celestiale.

L’Ottava Variazione parte “p sempre dolce” in un clima trasognato che è il prolungamento di quello delle variazioni 6 e 7. Stavolta gli accordi del basso sono sostituiti da un ininterrotto rollio di terzine, che movimenta la linea melodica semplice e cantabile come una romanza. Il violino per lo più appoggia o replica la melodia della destra; per qualche battuta archeggia ripetutamente sul do (come nella quarta variazione) o sul si bemolle; ma poi spicca con autorità nelle ultime battute.

Dalla Nona Variazione, che interrompe con terzine di semicrome a cascata il placido idillio del trittico precedente, il violino è completamente assente. Qui Beethoven dà libero sfogo alla sua capacità improvvisatoria: le terzine si combinano con sestine in un frenetico rincorrersi fra le ottave; questo movimento a serpentina rimbalza da una mano all’altra, chiudendo con una sventagliata verso l’alto questa prova di dinamica eleganza.

Nella Decima Variazione (di nuovo un “p sempre dolce”) ricompare il violino, prendendo in mano la melodia che cede solo occasionalmente alla mano destra del pianoforte. La sinistra interviene con note staccate, salvo il movimento arpeggiante delle ultime 6 battute.

La decima è una di quelle variazioni in cui il tema di Mozart si risente in forma più riconoscibile, ma il clima è sempre da romanza per violino. Se c’è una cosa che abbiamo perso di vista, è la sapida bonomia dell’opera buffa.

Il ritmo apparentemente giambico del violino nella Undicesima Variazione le dà un andamento a singhiozzo, in cui le sincopi e le note staccate s’impadroniscono della frase sminuzzandola, tranne che nelle uniche due brevi scale di semicrome. Si direbbe che qui Beethoven abbia voluto sparigliare le carte poco prima del finale, privando il pubblico dei suoi comodi punti d’appoggio.

Nella Dodicesima e ultima Variazione, come di prammatica, la mano sinistra esegue un basso tipico della variazione finale dei cicli mozartiani: quartine di semicrome di cui la seconda e la quarta fisse, la prima e la terza collocate ad altezze crescenti o decrescenti. Più facile a capirsi guardando il pentagramma che leggendo la descrizione. La melodia stilizzata è affidata ad accordi della mano destra, e ad accordi o note singole del violino.

Ma Beethoven non poteva accontentarsi di un’uscita così tradizionale. Ecco quindi una deliziosa Coda che parte in p e in pp, in cui il violino espone il tema, prima a partire dal do, poi dal re sottostante, mentre il pianoforte lo commenta con accordi a due mani, con arpeggi della sinistra, con salti di ottave della destra. Ed ecco che un ininterrotto trillo sul do dell’ottava alta introduce il ritorno del pizzicato del violino. Il trillo passa al basso e il violino archeggia. Il trillo torna alla destra e il violino pronuncia le sue ultime note staccate prima degli accordi finali del pianoforte. E con questo lieve, divertito gioco finale, cala il sipario.

L’interpretazione di Menuhin, sempre limpido e commovente, e di Kempff, perso nelle sue metafisiche passeggiate sulla tastiera, è di quelle con cui sarebbe vano rivaleggiare.