Gli arcipelaghi di settembre

Non so se donne vanno o canti tornano

agli arcipelaghi di settembre.

Inginocchiate davanti al muro di muschio

il busto fermo

gli occhi strisciano avidamente nella sera

spiando il circolo della caccia, la lotta nella melma

di due Briarei a colpi di miele.

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1975

Cerimonia

Pesci quieti di lattescenza. Pesci-dragoni e ginnasti saltellano attorno al falò.

Liane attorcigliate alle braccia. Sonagli e spire cingono la vita. Caviglie inanellate.

Musi viola spuntano dal suolo.

Nel fango dell’ebbrezza, nella fiamma acida, i bramini si fondono con le tortore.

Whisky. Peccati rutilanti, cerchi ed ombre.

Negli alberi si dipingono cavità perverse.

Un’acclamazione di sedie schiantate, di cembali lacerati. Una notte rimbalzante.

La terra, tesa come una pelle di pecora, rigurgita di pietà febbrile.

Fischi e saette rigano la carta bianca sullo sfondo. Treni ed altri animali ronzano nelle maracas.

Una paura di bambina si avventa sulle crocefissioni, rizzate al centro nel silenzio e nello scoppio di bombe.

Il rituale non conosce insonnia, non ha bisogno di torpore.

Le tigri guardiane affilano la sete durante la proibizione di uscire.

Lunghe pelli vengono stese sulla montagnola dei tormentati. Le razze equine assistono, scolpendo schiuma con la coda.

Ora il paiolo è caldo. Una fine di tumulto indica l’allontanarsi delle preghiere. Solo un sibilo lezioso infastidisce gli astanti.

Più nessun accenno ai tre sollevati. Più nessun omicidio stampato sulle fronti. Si comincia.

Giuramenti e false bestemmie sfilano all’incedere del supplizio. Ottoni costosi ornano la macabra portantina.

Eccoli quasi a collisione. I dodici pali subiscono un rapido spoglio dagli incappucciati, che hanno posato il fardello.

Silenziosi come caverne, retrocedono nello Sputo Sospeso che li inghiotte. Intanto sofferenze granitiche montano sul pulpito della cerimonia.

Non c’è più luce da dire, non più molta pace da conferire. Odono e sentenziano.

Già qualcuno solletica le suole, già qualche gamba si stende in direzione della radura.

Il pasto non è durato che un minuto, fervendo ancora i preparativi; eppure alla gente non dispiace.

Il sangue biasimato non è riuscito insipido a quei sempliciotti, quantunque non sazi.

Si diffondono dei “Bene” e degli “È tardi”, mentre il fresco rulla i primi addii sulle chine.

Nello stesso modo dispersivo in cui i plaudenti fanno ritorno alle piroghe, l’ultima cattedra si lascia richiudere con un tonfo.

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1972

I daini

Per questo c’è una spiegazione.

Per tutto c’è. Anche per questo verme senza occhi che si arrampica sul muro,

per questa casa smussata agli angoli, per questo foglio che annerisce,

per la testa d’uomo a forma di roccia trovata fra le tegole ammonticchiate in cortile.

Il gioco è breve, la caccia sta per finire.

I daini si rincorrono sperando di arrivare alla fine del bosco

che si prolunga in una siepe azzurra presso cui uno zoppo sospira.

Tornando indietro si raccolgono diamanti insperati ed erba fosforescente.

Uscendo all’aperto ci si ricorda dell’infanzia e si chiama verso la montagna

che non può rispondere, non può portare risposte.

In altri momenti si cercherebbe di scivolare inosservati:

non in questo giorno di gloria implacabile,

di rimorsi e verità accecanti.

Fingete di sapere la lezione.

Mangiate in silenzio, poi andatevene.

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1972