Su di me, coricato

Su di me, coricato,

fluttua la veste del giorno.

Inesperto di molle e balestre

esito ad addentrarmi nei suoi macchinari.

Seduto sull’armadio, compagna una fiera

dalle caviglie affusolate, il piede arcuato nella scarpina lucida,

ci baciamo: una misura classica ci allaccia,

turbata e sciolta subito

dai nostri sfatti pensieri.

Ancora uno strascico d’occhi accesi,

una falda notturna che sbatte nell’aria:

già ci sovrasta il terremoto urbano

col suo forte fermento,

piovendo il suo obliquo tricolore

di fango, rumore e gas.

È l’ora, mia stellata.

Mio picco, mia statura,

mio omicidio impunito.

È l’ora di accrescere i vivi per le strade,

di mischiarsi alla fretta svolazzante

con sottobraccio plumbei desideri.

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22/1/1983

Occupati da un mare che tritura nacchere e spezie

Occupati da un mare che tritura nacchere e spezie

sbattuti dall’ondata candeggiante

in una grotta lontana

inchiodati da un nero piede tribale

i nostri occhi viaggiano nella corrente che defluisce dal mondo.

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Siedo davanti al macigno

che percuoto con l’osso scintillante.

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Cammino sulla crosta terrestre come un equilibrista sulla palla; i continenti appaiono precipitosamente all’orizzonte; marciando si susseguono sotto i miei piedi.

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Maneggio un gioco di pazienza: far scendere nove palline in nove circuiti. Il mio vicino di tavolo si accorge per primo che ho in mano il sistema solare.

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Forse tutto ciò è sogno? commento alla finestra.

Il bicchiere che brandisco contro il sole risponde con un riflesso sanguinolento che si attorciglia al mio braccio.

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21/1/1983

Non nasce da tempo più nessuno

Non nasce da tempo più nessuno

da questo fango rossiccio che borbotta:

gli Inferi hanno smesso di ansimare

nell’argilla, velata dall’olio di globi infecondi.

Navi vuote s’incrinano nella palude rappresa,

un brontolio di cielo che digerisce

spazia sulla pesante marna.

Azzurre ramature nella diafana fascia di idrogeno

passeggiano verso il nord di vortici bianchi.

Dove una spada a piombo fonde il fango

funghi bollenti scoppiettano, a guisa

di pesci che assaltano le briciole a fior d’acqua.

E l’uomo inesistente conta ancora:

l’ombra della sua testa assente

grava la terra di opprimenti promesse,

la terra che non sa della sua morte.

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23/11/1982

Sono un poeta senza identità

Sono un poeta senza identità

che fabbrica ritagli

e li affagotta, simulando libri,

opere esatte, lance smeraldine,

e narra, inesauribile e scontento,

perdendo senno e disperando sempre

d’assolvere al suo compito.

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Ma forse un giorno atterrerà il bastione

e sniderà i gelosi borghigiani

predando il segreto della rocca.

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Non c’è nessuna rocca,

si sa, ma non per questo

bisogna disperare:

la malattia tiene in vita il malato,

il fiume mite sorregge le barchette

fino all’ansa più insigne, dietro cui

si versa nello speco.

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11/11/1982

Ho pieno il cuore di segni leggendari

Ho pieno il cuore di segni leggendari

e di scosse, al tinnire dei crepuscoli

nelle cisterne.

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Dipingo un atto dopo l’altro

e m’illudo che in fondo

rifulga la catarsi.

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Caracolla la notte travisata

manovrandomi le orecchie stizzose.

Quest’ennesima torva scaramuccia

mi lascerà insaziato a domandarmi,

seduto sul crinale,

che cosa vive, che cosa non è strano.

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11/11/1982

Gli inganni che dormono nell’aspo

Gli inganni che dormono nell’aspo

toccato da una rosea mano immemore

e avvicinato al labbro;

i pacifici inganni, che dormono sui rami

nelle pianure dove la luce torreggia, cucite nella tappezzeria dell’Ovest,

ondulano sazi di calore,

sciolti dall’amarezza.

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Se dai retta agli ammassi di sole sulle pietre

all’ingresso delle latomie,

al verde propagarsi dell’ansia negli steli,

al commosso assentire

dei bambù, nel viso assente

dello stagno infittito di pepe,

anche tu, anche tu vorrai venire

a bagnarti alla riva ghiaiosa

dove lo stento esala,

lo stordimento naviga acque fresche

ed affiorano agli occhi le radici.

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Annuirai alla prestanza del mare

in flagranza di furia e di tresca,

sibilla degli antipodi.

Mentre ruzzano groppe grigio-cerule

e si arrotolano pani d’avorio

teleostei abbandonati nell’ombra marina

trasudano un lucore d’aloe.

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5/11/1982

I portatori di febbre nella foresta ascetica

I portatori di febbre nella foresta ascetica

esibiscono le loro cartucce sparate, 

i loro carnieri zeppi di piume marcite;

con indosso grigi brandelli occhiuti

si grattano il dorso della mano,

si stropicciano ai tronchi stillanti della foresta unta.

Una tribù di Carburi dal dorso melmoso, inerpicatasi sulla collina, li aspetta con intenzione malferma al bordo della vegetazione.

Ci sarà la terza zuffa o un battibecco inarticolato?

La civiltà pianterà i suoi speroni in quei crani prima dello scontro

o essa stessa, attizzando le più alte chiome,

farà squillare il peana della deglutizione di fumo e di cadaveri?

Un uccello anacoreta gorgheggia un canto di commento e di speranza.

I serpenti cingolati frustano il suolo, spremono bave gastriche:

l’impiantito della collina rumoreggia, promettendo irruzioni;

le corone crateolate sono pronte a serrarsi come tagliole.

Non mi decido a dare il segnale di carica:

la sequela di mostri espettorati si affaccenda alle cucine da campo, brontola nel rifare i materassi.

L’autore umano vuol dialogare ancora un po’ col lettore, prima di addormentarsi

(potrebbero essere le ultime sette parole del Distruttore che rotea la croce)

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4/11/1982

Era il tempo del pasticciamento felice

Era il tempo del pasticciamento felice, della disordinata concretezza, quando profondevo succhi ed iperboli e scompaginavo i quadri.

Non temevo il ricatto della ragione, la necessità del sentimento. I miei turbamenti erano cromatici, l’ossessione veniva aggredita a colpi d’ascia. I tramonti venivano taciuti, i pendii frastagliati di palizzate, le case si sgretolavano prima di invecchiare.

Il grande respiro sovrano risucchiava ed alterava le linee, gli elementi del miscuglio ripiombavano giù deformati.

Niente è cambiato da allora.

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26/10/1982

Prima che il tempo consumi i suoi pomi

Prima che il tempo consumi i suoi pomi

o il giocatore ispirato mandi in pezzi la scacchiera

e la pellicola perisca nell’incendio che immobilizza i finali

gli aerei precipitano a occhi aperti nella selva pavesata,

dagli ospedali salgono circoli di tremiti,

i radar sui tralicci esplodono sotto il peso sonoro del mondo.

Nulla è così terribile come le malattie più semplici,

il reticolo a brandelli, le giunture indolenzite,

un paese inghiottito dal monte.

E il viaggiatore in corsa non s’accorge di nulla,

i lecci cadenzano la quiete inarrestabile,

la ferita nel monte fuma inutilmente.

Con un carico di cieli salubri e soli di lavanda

Con un carico di cieli salubri e soli di lavanda

la deità ridondante calpesta il nugolo di infermi,

ignara, ascendendo alle trine e all’imene di giubilo.

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Ed è in cima alla rifrazione di scale, tra ferrosi bagliori.

Nessun pubblico, cancellato dalla gomma pastosa delle nubi.

La guardo con angoscia, assisa nel biancore delle ginocchia

che i freddi falò celesti non rinsanguano.

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24/10/1982

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ENGLISH TRANSLATION

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With a load of healthy skies and lavender suns 

redundant deity tramples on the swarm of infirm, 

unaware, ascending to lace and to the hymen of jubilation.

And she is on top of the refraction of stairs, between ferrous flashes. 

No audience, erased by the pasty rubber of the clouds. 

With anguish I look at her, seated in the whiteness of her knees 

that the cold heavenly bonfires do not heat.