Si affatica sull’erta il violoncello

Si affatica sull’erta il violoncello

che non ambisce alla gloria ma a spezzare

la pietra quotidiana

gemendo di preghiera,

risalendo la china della luce,

straniero tra i nidi del gorgheggio,

oscuro agli amanti

di vaghe barcarole

rapiti da un frullo di sandali

nelle indolenti astanterie del mare.

.

Noi che chiniamo la testa al rigore

del suo aratro di stento, che apre i nostri

territori di cuoio,

sostiamo attenti all’attimo

trepido in cui l’archetto

inaspettato busserà al cuore,

alla sua voluttà di eruttare.

.

.

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20/2/2024

È la paura, animale da cortile

È la paura, animale da cortile

deposto sull’aia sterminata

coperta di violoncelli

percorsa da soavi digressioni.

.

È la maglia fratturata della terra

in cui discende per sempre il reziario

dal mal pagato sudore.

.

Cerco ancora la riviera inesausta

osservatorio di brillii

ove in rimbrotti d’acqua

bianchi temi s’intrecciano d’azzurro:

puramente paesaggio, rimirato

nella persona infinita.

.

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20/3/1982

Partita

L’aereo si librava ad alta quota con un tenue rollio. Quei passeggeri che non erano afflitti da un incipiente mal d’aria, si baloccavano coi pensieri in trasognata solitudine.

In un angolo tra la prima classe e la turistica, il comandante eseguiva la seconda Suite per violoncello solo di Bach. Il secondo pilota, ritto accanto a lui, gli voltava le pagine dello spartito.

Federico era il solo passeggero il cui comportamento denotasse una superstiziosa ed avventata sfiducia. Si muoveva sul sedile, smaniava, si torceva le mani. Le hostess si soffermavano accanto a lui ad ogni passaggio nel corridoio: chi lo baciava, chi gli arruffava i capelli, chi lo accarezzava, chi gli prendeva la mano e se la posava sulla guancia. Nonostante le loro cure materne, Federico era sempre più inquieto.

Chi pilota l’aereo?”, chiese con voce stridula e strangolata ad una hostess bionda, afferrandole il polso mentre a passo svelto stava oltrepassando il suo posto, non senza avergli largito un caldo sorriso. L’hostess gli si sedette in grembo, premendo la testa del ragazzo sulla sua fragrante camicetta di lino bianco. Federico si confuse, la gota e l’orecchio incollati al ben seno florido della donna, di cui percepiva la regola profonda del respiro.

Scioccone”, disse lei. “Il pilota è abile e ben addestrato, di saldi principi morali ed ottima famiglia: gli è stato inculcato il rispetto del prossimo e dell’incolumità dei passeggeri, l’amore per la natura e la vita, il desiderio di passeggiare nei boschi e infine la passione per la musica. Mai e poi mai permetterebbe che l’aereo precipitasse; anzi, la più lieve sbandata lo rattrista. L’ho visto coi miei occhi flagellarsi per minimi errori di manovra, di cui nessuno, neanche il secondo pilota, si era accorto. A volte, benché nulla abbia commesso, si punisce ad espiazione degli errori futuri”.

Mentre l’hostess parlava, le vibrazioni del suo petto si trasmettevano alla guancia ardente di Federico.

Non molto rassicurato da quel panegirico, Federico sentiva il cuore battergli forte, non solo per le parole della donna. Il piacere che in altri frangenti avrebbe gustato appieno e con perfetta soddisfazione, gli veniva sciupato dal fastidioso presagio di non poterne godere a lungo. Tutti i piaceri, ci insegna il filosofo, sono caduchi e per lo più di breve durata; ma quelli che si provano a bordo di un aereo che secondo una ragionevole previsione sta per sfracellarsi, ancorché intensi, sono forse un po’ troppo effimeri.

C’era poi la questione dello spago. La hostess si accalorava a spiegargli che l’aereo non poteva precipitare perché era appeso a uno spago molto robusto. Federico la guardava con gli occhi fuori dalle orbite. Benché la sua conoscenza dei velivoli non fosse profonda né le sue cognizioni di aerodinamica estese, era propenso a non crederle. Nessun ragazzo intelligente e con ottimi voti sulla pagella l’avrebbe fatto. Era timido ma non sciocco. E le sue pagelle erano lodevoli. Perciò non prestò fede alla storia dello spago finché non lo vide, riflesso nei finestrini di un aereo che per qualche minuto viaggiò affiancato al suo. Federico non sapeva che gli aerei si possono trovare occasionalmente appaiati come treni. I passeggeri dell’altro aereo si sbracciavano in saluti. Una ragazza gli mandò un bacio, gli parve. Durante un colpo d’ala dell’aereo a fianco, i finestrini di questo riflessero la parte superiore della carlinga. Fu allora che vide lo spago. Era attaccato al centro della carlinga, a poco più di un terzo dal muso dell’aereo. Federico si voltò verso la hostess, e la sua fisionomia esterrefatta si alterò dal dispetto, alla vista del risolino sardonico cui erano atteggiate le labbra della donna. Non si parlarono più fino all’atterraggio a Katmandu.

Era venuto in Nepal a visitare un monastero buddista. Un vento tagliente lo sferzò sulla scaletta dell’aereo. Si rattrappì nel cappotto e discese i gradini della scaletta. Prima di entrare nella sala d’aspetto si volse indietro: l’hostess bionda, in piedi vicino al comandante, gli indirizzò un fuggevole saluto con la mano. Nell’altra reggeva la custodia del violoncello. Il comandante, impettito e sull’attenti (quantunque sul piazzale dell’aeroporto non ci fosse anima viva, oltre a loro due), aveva riacquistato un aspetto robusto e giovanile, notò sorpreso Federico, che conservava di lui l’immagine di un fragile vecchio canuto chino sul violoncello. Adesso aveva tutti i capelli neri e portava il cappotto sotto il braccio, con quel freddo!

Nella sala d’aspetto, Federico si accorse di essere solo. Ripreso il bagaglio, uscì sulla piazza antistante.

Dirimpetto a lui si stagliava un grattacielo di vetro verde la cui base era nascosta da una fitta vegetazione. L’edificio sembrava spuntare dal suolo, come un albero cresciuto più degli altri. Una mezza dozzina di bambini giocava con cerchi e mazze di legno a pochi passi da lui. Non vedendo in giro nessun altro, Federico si avvicinò alla banda e chiese a quello di loro che sembrava il più grande: “Qual è la strada per il monastero?”, incurante del fatto che molto probabilmente i bambini non capivano la sua lingua. L’interpellato alzò gli occhi un momento, poi li riabbassò sul gioco. Il più piccolo, invece, un monello non maggiore di tre anni, gli additò muto il portone del grattacielo. Federico vi si diresse con i bagagli in mano. Era certo che i ragazzi non avessero capito la domanda, ma gli bastò un attimo di riflessione per convincersi che la sola cosa da farsi era entrare nel grattacielo: era l’unico posto là intorno dove gli avrebbero potuto dare ragguagli.

Le porte comandate da una cellula fotoelettrica si spalancarono dinanzi a lui. Si fermò interdetto nell’ampio atrio, non vedendo nessuno. Subito però le porte di un ascensore si aprirono: ne uscì un uomo in divisa gallonata, che gli si affrettò incontro.

Scusi”, chiese Federico, “sa dirmi dov’è il monastero buddista?”

Salga al sedicesimo piano” rispose nella sua lingua quello che doveva essere un usciere.

Appena messo piede sul sedicesimo, una vocina lo chiamò dall’interno di una stanza: “Venga, venga”.

Un po’ sconcertato, non tanto dal vedersi aspettato (era evidente che l’usciere gallonato li aveva preavvisati), quanto dal constatare che tutti, in quella remota contrada straniera, parlavano la sua lingua, il ragazzo si avvicinò alla porta dalla quale gli pareva provenisse la voce; su una targhetta a fianco della porta lesse: “Ufficio Informazioni e Solidarietà”. Sospinse il vetusto uscio di ciliegio e un vegliardo lo squadrò con gli occhi arrossati; al termine dell’esame gli chiese con garbo: “Vuole ancora andare al ministero?”.

Al monastero” corresse Federico. Il vecchio aveva certamente frainteso la telefonata. Forse era un po’ sordo.

Ah”, soggiunse il vecchio, e la faccia frastagliata di rughe gli si illuminò. “Proposito lodevole. Ma torno a chiederle: vuole ancora andarci?”.

Certo che voglio” rispose Federico.

Sa, molti nel salire cambiano idea. Hanno tempo di riflettere” ammiccò l’altro.

Riflettere su cosa? Che c’è di strano nel visitare un monastero?”.

Quarantottesimo piano, dalle Guide” disse il vecchio indicando il soffitto, invece di rispondere.

Federico uscì perplesso e prenotò l’ascensore.

Lo accolse al 48° una signora di buone maniere che si sdilinquì in smancerie, ringraziandolo più e più volte per l’onore, felicitandosi che un così bel giovane manifestasse propositi così austeri per la sua età, alla quale di solito non si pensava che a spassarsela, ecc.

Federico cominciava a seccarsi.

Dunque lei è la Guida?” la interruppe.

La signora si arrestò a bocca aperta.

Naturalmente” rispose riprendendosi subito. “Ma, ragazzo mio, non posso illuminarla se lei prima non acconsente…”

Illuminarmi? Chi vuol essere illuminato? Dubito perfino di aver bisogno di una guida. Mi basta che qualcuno si decida a indicarmi la strada”.

Non ha che da salire al 96° piano”.

Che?”

Salga al…”

Cos’altro c’è al 96° piano?”

Una rappresentanza del monastero. Le stavo dicendo, è di importanza eminente che lei accondiscenda ad avere un incontro preparatorio con la rappresentanza. Molte virtù del monastero le sfuggirebbero se lei vi irrompesse come un qualsiasi turista frettoloso. I monaci sapranno aprirle la mente; quando sentenzieranno che è pronto, potrà scendere da me”.

Federico era frastornato. “Ma mi assicura… che non dovrò salire oltre il 96°?”.

Certo che no. A meno che…”.

A meno che?”.

Basta, glielo diranno i monaci. Tutto ciò che deve fare è pendere dalle loro labbra”.

Federico entrò nell’ascensore rimuginando il suo malumore. Al 96° le porte scorrevoli si aprirono davanti a un portone di rovere, sul quale spiccavano due pesantissimi antiquati battenti in ferro. A due mani il ragazzo ne sollevò uno e lo lasciò ricadere. Al rintocco seguì un’eco vibrante e profonda che si disperse all’interno. Un monaco aprì.

Venga, prezioso pellegrino”.

Anche quell’appellativo doveva far parte della cerimoniosa accoglienza in uso da quelle parti, o almeno nel grattacielo, pensò Federico.

Padre, beneditemi” gli uscì dalle labbra contro ogni intenzione.

Vedremo” fece il religioso, condiscendente. “Intanto deponga il mantello”.

Non ho mantello” obiettò Federico sorpreso.

Il mantello delle sue opinioni e abitudini. Poche cose, qui, saranno familiari al suo pensiero”.

Federico si rassegnò a sopportare quel continuo predicozzo e si inoltrò a passo deciso in un corridoio male illuminato, pedinato dalla voce litaniante del monaco.

Dopo una serie di svolte di cui Federico non tenne il conto, il corridoio sfociò in una stanzetta dove si svolgeva una strana partita, o almeno così sembrava. Ognuno addossato a una parete, quattro monaci si fronteggiavano a due a due, impugnando racchette da ping-pong e rimandandosi due palline, una per ciascuna coppia. Mancando il tavolo, le palline venivano fatte rimbalzare per terra. Pur incrociandosi ad incredibile velocità, non si urtavano mai.

Dopo trenta secondi il movimento cambiò. Come di concerto, ma senza darsi alcun preavviso apparente, i monaci decisero di passare la pallina non più al compagno di fronte bensì a quello di destra. Le sferette bianche ora si rincorrevano attorno alla stanza. Dopo altri trenta secondi, nuovo cambio: si tornava a giocare a coppie contrapposte, ma battendo la pallina sul soffitto. Poi ancora le sfere vennero incrociate alternativamente sul pavimento e sul soffitto. La volta dopo si mantenne la stessa rotazione, ma le palline non si incrociavano più: mentre una toccava il soffitto, l’altra si schiacciava sul pavimento. Poi si riprendeva da capo, ma scambiando il compagno di destra con quello di sinistra. Insomma, c’era da diventare pazzi.

Per dieci minuti buoni Federico rimase a guardare ipnotizzato. Non una sola volta il gioco si interruppe o le palline si toccarono: l’abilità e la sincronizzazione dei quattro erano strabilianti. Chissà da quanto tempo provavano, quei serafici confratelli, per aver raggiunto un coordinamento così perfetto. Certamente si allenavano per ore e ore tutti i giorni.

Vieni” fece il portiere con un cenno del dito, invitandolo ad attraversare la stanza dietro di lui. Passarono senza essere sfiorati e senza guastare il gioco, le cui fasi continuarono a susseguirsi imperturbate, come se la stanza fosse stata traversata da corpi immateriali. I giocatori non dettero segno d’essersi avvisti dei disturbatori, fuorché per gli impercettibili aggiustamenti delle traiettorie di tiro necessari a schivarli.

La seconda stanza era più ampia. Una ventina di frati vi tenevano un chiassoso convegno, berciando attorno a un tavolino coperto di soldi dove uno di loro raccoglieva scommesse. Al sopraggiungere del “prezioso pellegrino” le voci si smorzarono e più d’uno tacque nervosamente. Il portinaio li rassicurò; in capo a un minuto si erano sbarazzati del momentaneo ritegno e il baccano era ripigliato con pari vigore. Quando si saziarono di scommettere e contrattare, fecero largo scostandosi dal tavolino e spingendolo in un angolo. Da due porte laterali opposte qualcuno spinse dentro due parallelepipedi montati su ruote. Nel primo, una grande cassa di cristallo molato, Federico vide snodarsi e contorcersi un groppo di serpenti; nel secondo, una stia con tre pareti laterali in legno e la quarta chiusa da una porticina a sbarre di ferro, una quantità di conigli si rannicchiavano e addossavano gli uni agli altri squittendo.

Il monaco che aveva spinto il carnaio di serpenti vi ficcò dentro un bastone; attese che una serpe vi si fosse attorcigliata attorno, poi la scaraventò in mezzo alla stanza.

Il frate presso la stia la aprì, ne estrasse un coniglio, richiuse la gabbia e adagiò la bestiola al suolo a conveniente distanza dal serpente.

I due animali si osservarono, il rettile immobile, con la testa appena rialzata e la lingua saettante; il coniglio tremante e incapace di muoversi. Si fece silenzio, mentre la stanza andava saturandosi di lezzo di coniglio. Il serpente prese a strisciare verso l’impietrito leporide: sembrava scorrere entro uno stampo a esse, ricalcandone i meandri. Giunto a mezzo metro dalla preda, si sollevò di quel tanto che l’istinto gli suggerì, quindi scattò in avanti. Il coniglio fu azzannato alla gola; si lasciò sgozzare senza emettere un suono. Mentre l’ofide si predisponeva al pasto, allargando le fauci per inglobare dalla testa il bianco bocconcino impellicciato, i monaci si riscossero dal torpore in cui erano piombati seguendo le fasi del breve assalto e si trascinarono verso il tavolo, chi con l’occhio dardeggiante di soddisfazione, chi con aria delusa. La posta, come Federico apprese da una sommaria spiegazione datagli da un monaco basso vittorioso ed eccitato, toccò a chi aveva scommesso non già sull’ineluttabile vittoria del rettile, ma sul fatto che il coniglio non si sarebbe mosso.

Mentre sul tavolo si ammucchiavano le puntate delle nuove scommesse, Federico scavalcò la serpe che intanto aveva divorato il coniglio fino alle zampe posteriori ed entrò nella terza stanza.

L’arredamento qui era anche più spoglio che nelle stanze precedenti: c’erano solo una sedia e, accanto ad essa, un bilanciere posato sul pavimento. La sedia era occupata da un monaco dagli occhi torvi, che fissava un uomo in piedi davanti a lui, in tenuta da sollevatore di pesi.

Alla domanda di Federico se anche l’atleta fosse un monaco, il portinaio rispose di sì.

Il sollevatore piegò le gambe divaricate, impugnò il bilanciere e, mantenendo la schiena eretta, le ridistese, indi con una leggera spinta della schiena all’indietro sollevò l’asta e la fermò sul petto; dopo un attimo di pausa stese le braccia in alto e sollevò il bilanciere sopra la testa. Quindi fece a ritroso la stessa sequenza di movimenti e si rialzò.

La ripetizione del ciclo fu senza confronto più faticosa. Nonostante non fosse stata aggiunta nemmeno una piastra,l’attrezzo pareva pesare oltre venti chili in più, a giudicare dalla tensione dei muscoli e dei lineamenti del sollevatore: con le mascelle contratte e la fronte gocciolante, questi ripeteva assai più lentamente gli stessi gesti di prima, sotto l’occhio grifagno del monaco seduto.

Chieste spiegazioni dello strano fenomeno e di chi fosse il monaco seduto, Federico si sentì rispondere che quello era l’atleta e l’uomo in piedi il suo allenatore. L’esercizio consisteva nell’aumentare col semplice sguardo la pesantezza del bilanciere.

Così sviluppate il potere di suggestione?”.

Nessuna suggestione: si accresce il peso dell’attrezzo. Dopo l’esercizio il bilanciere viene messo sulla bilancia e solitamente si trova pesante oltre venti chili in più. Non vorrai sostenere che la bilancia sia suggestionabile? Ma passiamo nella quarta stanza” concluse l’accompagnatore senza aspettare la replica dell’ospite che, incredulo, avrebbe voluto sincerarsi coi propri occhi.

Il frastuono di molte voci altercanti accolse i due al loro ingresso nello stanzone che seguiva i primi tre locali. Attorno a una lunga tavolata di noce una ventina di monaci corpulenti schiamazzavano, lanciandosi invettive roventi. Si affibbiavano epiteti senza risparmio di ingiurie, conditi con promesse di atrocità. Il curioso era che ogni tanto un monaco si alzava barcollando e si portava una mano al petto, come colpito da apoplessia, e stramazzava a terra con fracasso. Poco dopo si rialzava e si rimetteva a sedere, però con la faccia un po’ più solcata e la chioma un po’ più canuta; pian piano riprendeva vigore e tornava a fare il gradasso. Finché, dopo quattro o cinque capitomboli, cadeva stecchito e restava lì a farsi calpestare e straziare nel fervore della discordia.

Rimasti ormai in quindici, a un certo punto il più irruento e rubizzo dei confratelli balzò sul tavolo e si sbarazzò del saio. Sotto portava un costume da bagno a righe colorate. Corse a un capo del tavolo e, usandolo come trampolino, si tuffò dalla finestra.

Federico corse a vedere: tre piani più sotto il monaco, spiaccicato sul cemento, nuotava faticosamente a rana nel suo sangue. Federico trasalì sentendosi soffiare nell’orecchio dal suo cicerone: “Il cervello non si è impadronito ella realtà. Riscuotiamolo”. Scesero i tre piani e uscirono attraverso una porticina sul terrazzo dove giaceva il monaco agonizzante.

Il portinaio si chinò su di lui e sibilò con voce soave:

Stai nuotando sul cemento, non nell’acqua”.

Il moribondo parve riflettere un istante: il suo viso si illuminò di comprensione. Strabuzzò gli occhi e si irrigidì.

È morto” commentò sgomento Federico.

Forse sì e forse no” replicò il monaco, come se si potessero ancora nutrire dubbi.

Decideranno i corvi” terminò tranquillamente, rientrando per la porticina.

Allo spettacolo di tanta sovrumana indifferenza il ragazzo si sentì rimescolare.

Perché fate morire tanti monaci? Tenete in così assoluto dispregio la vita umana? Non temete di fare tutti una brutta fine per la leggerezza con cui vi comportate? E poi, insomma, dov’è il monastero?”.

Muore solo chi vuole” ribatté il religioso senza scomporsi. “Da noi la morte è facoltativa. Per rispondere all’ultima domanda, al 351° piano c’è un padiglione della Fiera dei Monaci dove alcune stanze del monastero sono riprodotte a grandezza naturale. Ti gioverebbe visitarle, prima di avventurarti in un ambiente così alieno alla tua filosofia e visione dei mondi”.

Vorrai dire visione del mondo: quella che i tedeschi chiamano Welt…”

Non stancarmi con la tua meschina dottrina”.

Ma è un concetto elemen… 351°? Non credevo che il grattacielo fosse così alto! Non sembra, da fuori”.

I piani oltre il 300° sono invisibili. Sono i Piani Occulti. Visti dall’interno sono perfettamente uguali ai piani normali, tranne per un leggero mal di stomaco che si prova le prime volte che ci si capita”.

Federico si lasciò vincere dalla curiosità. Salutato il suo compagno, prese l’ascensore e si fermò al piano della fiera.

Qui trovò monaci sereni e paciosi che leggevano, si pettinavano, si sventolavano e facevano la siesta. Nessuno di essi sembrava attendere a una qualche occupazione attiva. Molti ruminavano degli strani confetti, arraffandoli da piattini di porcellana che tenevano accanto. Federico si avvicinò a un piattino e le budella gli si torsero. Erano formiche d’argento. “Lo credo che hanno mal di pancia”, pensò. Il proprietario del piattino gliene offrì.

Grazie, ma sono indisposto” tentò di celiare il ragazzo per declinare l’offerta.

Il cenobita rise facendo ballare la pappagorgia.

Devi accettare, diacono. Non te l’hanno detto? Chi rifiuta va in esilio al 1490° per cinque anni”.

Non sono un diacono, solo un visitatore. Quanti dannati piani ci sono in questo grattacielo?”.

Quanti ne puoi salire”.

Ma… ho visto che l’ascensore si ferma al 1000°”, obiettò Federico, ricordando di aver dato un’occhiata in cima alla fila dei pulsanti.

Non è esatto. Al di sopra del 1000 c’è un pulsante contrassegnato con la lettera D. Premilo: l’ascensore ti porterà dove desideri”.

Il tono del monaco era pacato ma perentorio. Non suggeriva, ingiungeva: sapendo, del resto, che il ragazzo si sarebbe fatto tentare da un’esplorazione che si prometteva fertile. Federico infatti si teneva a stento.

Cosa c’è in tutti quei piani?” chiese, cacciandosi distrattamente in bocca una manciata di insetti argentei.

Tutto. Qualunque cosa ti venga in mente. Basta cercarla con cura”.

Il monastero dov’è?”. Il giovane non defletteva dalla sua idea fissa.

Fra le montagne. Ci si arriva solo con un aereo che parte dal 3028°. Ma ce n’è una riproduzione esatta al 2666°. Ti basta salire meno di duecento piani a piedi oltre l’ultimo raggiungibile con l’ascensore, che è il 2485°”.

Federico era frastornato. Quest’ultima informazione era in netto contrasto con le precedenti. Allora la D non portava dovunque? L’idea di salire a piedi oltre duecento piani di scale gli fece venire i bruciori di stomaco; se non erano state le formiche. E poi era stufo di uffici di rappresentanza, padiglioni di fiere, modellini, riproduzioni fedeli. Voleva l’originale. Ma come arrivare a quell’inaccessibile 3028°? poteva avvicinarcisi a tappe? Quanto ci sarebbe voluto? Cominciò a calcolare mentalmente: cento piani al giorno… Lo assalì la febbre della marcia: salutò in fretta il cenobita pacioso e, senza buttare neppure un’occhiata alle stanze interne, si infilò nell’ascensore. Notò il pulsante contrassegnato con la D. Lo premette. La cabina (solo allora notò che era di vetro) si elevò rapidamente, attraversando piani di cristallo che, forse a causa della velocità vertiginosa, apparivano sempre più luminosi e vuoti. Finché fu circondato solo dall’aria azzurra. Tutte le nozioni trasmessegli da quegli stravaganti mistici orientali si stavano sgretolando, vanificate dalla realtà. A meno che non l’avessero voluto confondere apposta, per eludere la sua invadenza di turista becero.

L’aria si tinge di verde, si affolla di verzura. Federico viene deposto all’imbocco di un sentiero. Il monastero è lassù, non distante. Copre a piedi il breve tratto, arriva, spinge la porta. Sua madre lo accoglie.

Finalmente sei arrivato”.

Che fai qui? Come ci sei venuta?”

Sono partita con te. Ero sul tuo aereo. Non mi hai vista, alloggiavo nella custodia del violoncello. Non sono però scesa a Katmandu ma ho fatto scalo a Ciaccona, una località fra queste montagne. Sono giunta al monastero a dorso di mulo, valicando una gola sul Ponte dell’Archetto”.

I trappisti confuciani dove stanno?”

Siamo tu ed io tutti i monaci. Possiamo pregare, digiunare o leggere. Non ci resta molto tempo: il monastero chiude fra un’ora”.

Come, chiude?”.

Per sempre. La religione dei monaci è stata bandita dal paese. Chiunque venga sorpreso vivo qua dentro fra un’ora, verrà massacrato. A meno che non stia suonando il violoncello. Ma ora sono stanca. Lasciami sdraiare sul letto”.

Se ne va nell’altra stanza. Federico la segue.

Mamma…”.

Le si avvicina. Fa per riscuoterla. La tasta, non ha polso. Addossato al muro c’è un violoncello. Federico lo imbraccia e attacca la Giga della Suite n° 2, nel silenzio lentamente avvelenato dal crescente clamore dei soldati che si avvicinano.