Quando il primo raggio ferì la pietra,
cesellando le vite da istoriare,
ci fu ascolto sospeso nella valle,
gobbe si trascinarono sui versanti,
la meraviglia punse visi
illividiti.
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7/2/2024
Quando il primo raggio ferì la pietra,
cesellando le vite da istoriare,
ci fu ascolto sospeso nella valle,
gobbe si trascinarono sui versanti,
la meraviglia punse visi
illividiti.
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7/2/2024
La vita si legge in nastri rupestri
affumicati dal tempo, fecondati
dal magma aureo degli occhi.
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Baratri in cui si annidano
arti lillipuziane,
folle di licaoni, romanzi di orche gialle;
moli da cui prende il largo
l’uomo in perenne deriva
dalla proda di pietra corinzia.
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Navi incatenate affondano
nelle spire di incensi.
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L’alba un arazzo di ipotesi
lussureggianti.
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7/1/2024
Dormiente, la penna tra le dita,
mi incammino mollemente sul tuono,
la fronte fasciata di leopardi.
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Fronteggio un mondo di fantasie murate,
abetaie dissolte, atolli in fuga
e destini che affondano fino al ginocchio.
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Su di un prato rialzato
schermi lignei dal piano marezzato
lampeggiando decidono vite.
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7/12/2023
Il sole ostia nera
collerica moneta del deserto
scimitarra blu sulle ossa.
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Il volto di pietra imbronciata
gli occhi vacui sorseggiano la vita
senza commento.
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4/11/1987
Che porta il fatuo vitalismo,
l’appetito di pelle?
Meglio il pensiero che artiglia,
la torre che espettora silenzio.
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26/2/1986
Mi levo sulle stuoie, ponendomi a questa
finestra che inquadra residui di architettura:
mezzo frontone, un mozzicone di campanile,
un tratto di ballatoio;
le nubi che insoddisfatte riedificano
senza posa le loro sculture.
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Compongo il mio profilo sul perno celeste,
soggetto ai climi, ai densi umori planetari,
intorbidato dall’acqua delle mappe.
La mia vita si spende nella pagaia:
sensazioni flessuose si accomiatano alle anse,
richiami di fiere oltrepassano il corpo ammutolito.
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Prigioniero del lucernario
risalgo i raggi sconfitti
(affondano nel ventre della casa)
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L’orazione spezza per sempre i suoi scudi:
muore nel fulgore ellenistico, come statua ripudiata,
muore tra l’incertezza e la fatica, come una talpa invecchiata,
e infine muore, asciuttamente, con labbra grinzose.
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Questa dovrebb’essere, e non è, la fine:
la penna riappare sull’ala, i luoghi s’empiono di parole,
il canterano di vecchi tessuti abusivi e neri cimeli.
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Chi può dire, tra breve, che altre fole
racconteranno ospiti semiseri
rimestando la cenere nei piatti?
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9/9/1982
È la consolazione del vecchio
rimasto a guardare un punto
non trovato nell’aria
con due stelle slabbrate.
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È il plasma dell’artefice febbrile
che risale abbracci copiosi
di vite immaginarie.
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È un’attenzione, impartita dalle alture,
ai testi gutturali della notte,
agli spilli iracondi della pioggia,
al volo primario dei ghiacci.
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28/4/1982
Cosa resta della pioggia sulle immagini,
che vita infonde il diluvio che smeriglia?
Coltivi con giudizioso assillo il soffio
che in una radice quieta
scenderà dopo breve errare
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26/1/1981
Le parole sono un
verme
che mi porgi
al riflusso della vita
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1976
Rivolto la guerra con le due vite
rivolto la tua strada, che è un plotone sperduto
(la rivolta ne fa un piano accantonato e un tasto assoluto).
La guerra, anche lei, e anche la fanciulla
indiavola l’archetto sopra stalle e falangi
dove stormiscono raggi. La salvezza è nuova,
è vanto, è bambino prestigioso,
moneta deserta e vaso d’asfissia,
scatola chiara e mimica sigillata,
cane immortale e proboscide tra gli amori
che frusta con tartarughe e abissi
nel momento fra il corvo e il corvo di sotto.
Quale dio si volta nella lingua?
Quale dio bollente o quale isola sazia
i cui emigranti sono tornati
riversando rubini e fiaschi di intolleranza,
nascondendosi sotto le catene e i ragni e fuggendo nei ragni,
ascoltando in quei gusci il rotolare dei castelli, i fianchi della bellezza.
Non li aspettano le donne, morte sulle colline con le loro vesti di furia.
Le colline scoppiano, restituendo gli amori.
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1968