Sarà lento, lento il mio viaggio

Sarà lento, lento il mio viaggio,

pieno di trafitture e fremiti,

ricoperto di pesci odorosi,

fiancheggiato da cenere e rimorsi.

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Porterò con me limoni di zolfo

e un’intera cassetta di soluzioni impossibili

col suo querulo cigolio

e le sue fontane di nebbia.

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Avrò occasionali compagni

battaglioni di insulti e rimostranze,

braccia conserte di donne alla finestra,

addii di venditori di tramonti.

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Quando oltrepasserò

la soglia dei venti ammansiti,

la rosa canina degli infermi

sarà la mia stella polare.

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9/1/2024

I fabbri sotterranei color del mosto

I fabbri sotterranei color del mosto

i cardatori del viluppo di miti

scuotono le redini della casa

ed imbrattano il sonno.

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Tornati alla luce infrangono i marmi

bagnano i rebbi nei corpi di spugna.

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Le mani, al ritrarsi,

elidono la cenere

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(roteando si smorza la rosa)

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agosto 1988

Mi levo sulle stuoie

Mi levo sulle stuoie, ponendomi a questa

finestra che inquadra residui di architettura:

mezzo frontone, un mozzicone di campanile,

un tratto di ballatoio;

le nubi che insoddisfatte riedificano

senza posa le loro sculture.

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Compongo il mio profilo sul perno celeste,

soggetto ai climi, ai densi umori planetari, 

intorbidato dall’acqua delle mappe.

La mia vita si spende nella pagaia:

sensazioni flessuose si accomiatano alle anse,

richiami di fiere oltrepassano il corpo ammutolito.

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Prigioniero del lucernario

risalgo i raggi sconfitti

(affondano nel ventre della casa)

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L’orazione spezza per sempre i suoi scudi:

muore nel fulgore ellenistico, come statua ripudiata,

muore tra l’incertezza e la fatica, come una talpa invecchiata,

e infine muore, asciuttamente, con labbra grinzose.

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Questa dovrebb’essere, e non è, la fine:

la penna riappare sull’ala, i luoghi s’empiono di parole,

il canterano di vecchi tessuti abusivi e neri cimeli.

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Chi può dire, tra breve, che altre fole

racconteranno ospiti semiseri

rimestando la cenere nei piatti?

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9/9/1982

Questi oggetti incatenati

Questi oggetti incatenati

questi ciottoli di sapienza

non sono che rimpianto. Il muschio si bagna nei cervelli sacri,

brucia da solo nella potenza delle camere.

Ho saputo tutto:

l’ansietà e il coraggio, l’insulto e la settima virtù,

il seme del lampo e la ionosfera, i barili di cenere solitaria,

i cavalieri di potassio che mietono capanne nascenti

e attrezzi e limoni di scienza. La scienza si è arrestata alle due porte:

quella della vita e quella degli animali ancora vivi. Potete assalirli

con ciliegie, perdite, denaro mentito nelle sciolte bocche.

Potete calmarli con bocche esagerate,

spinte fino a un bastione africano. Potete morire

ma allora non sapreste andarvene di lì, e i codici si ammucchierebbero sul vostro petto

e anche gli occhiali, e la superbia, ferma come un purgatorio nelle pance

e dovreste attendere la primavera. La primavera,

con un salto rapito e un movimento scomparso in cielo

si prepara a chinarsi sull’erba delle fronti

mentre i mariti del vento e il terrore dei palazzi soccombono tra due braci, e non c’è primavera in ascolto

né sorrisi mischiati o veloci ondulazioni:

c’è un Cristo coperto di esagoni e un rospo vermiglio

che inghiotte un pianto bruno e uno spavento sintetico;

c’è solo amido, e farfalle, e un’ostia di pesanti equatori.

Potete andare, o navigare, e nessuno vi coprirà di esuli.

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1970