Con rumore di infinità si urtano sul camion i bidoni di tenebre
correndo verso il crepitio dei rami bianchi
sotto i passi bagnati della luce.
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Calpesto un liquido interminabilmente nero che si versa dalle mie tasche,
fermentato con tuoni urticanti, apoplessie stranamente sorridenti,
arti di portentosi vasai che sagomano il cuore.
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Sciolgo i viticci e i dubbi femminili
di pellegrine che mi si affiancano con capelli interrogativi:
la loro veloce gratitudine
rischiara la direzione del mio sonno.
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Il viandare si perde brevemente in un coro
lanoso, che movimenta l’orizzonte.
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Siedo, e mi accerchia l’aria:
tiene a distanza il tempo coi suoi falchi
e gli uomini e le loro libagioni;
mi lascia
la punitiva intimità del cruccio.
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Dèi paludosi vengono in nostro soccorso
dardeggiando cinabro, arcuando i dorsi terribili,
inforcando cavalli di corno e meteoriti:
snidano gli avversari dal fondo del baco,
sciolgono i crocchi nei viali sottomarini,
commissionano elogi a cronografi imbellettati.
Li guardiamo combattere,
impoltroniti sognatori di future rovine.
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Solo nenie fioccano sui nostri campi bianchi,
la durlindana dorme nella buccina,
scolorita vetraglia
ritorna dalla pioggia.
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È un attonito e stracco almanaccare
sui panni trepidando sciorinati,
un’attenzione vischiosa al metronomo
che si attesta nel nostro respiro.
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Con rumore di immensità si urtano sul camion i sacchi di tenebre
in corsa verso il luogo dove crepita il ramo bianco della luce.
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7/5/1982