Sei ancora tu che mi aspetti, con paglia azzurra e salnitro spezzato: vicino al tuo cuore si arrampicano dolci paure, ed io rimonto con un loto sul braccio il fiume riflessivo delle tue iridi.
Ti ho sorpresa bagnante ad un guado di cera maestosa e di tabernacoli lampeggianti.
Ho scardinato il dente colossale di cui ti eri fatta un’armatura.
Le Atlantidi ansiose di essere scoperte dai tuoi navigli, le ho espugnate in un soffio, estinguendole con uno sguardo d’orso e un molare rabbioso.
Ciò che ti aspetta è la gravità: della cella, dell’inchiostro affiorante dal piancito, della raspa, la cui voce stregata ammonisce gli impietriti e i loro figli brulicanti nel mattone.
Riesco a evadere da te, a sperperare i tuoi fianchi: l’antagonismo eccitato dei nostri sforzi di languenti, il bramire dei corpi impegnati a devastarsi. Raccolgo la sabbia della tua clessidra infranta: ai primi tepori si liquefa e si aggiunge alla mia pelle. La mia pelle si decuplica, ti veste con metri e metri di epitelio e pori, come un grande mantice umettato.
Esci nelle strade, vestita di clarini.
.
.
.
20.10.1978